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Pearl Jam – Dark Matter

Nel trentesimo, dolorosissimo anniversario della morte di quel profeta involontario e riluttante, la pubblicazione di Dark Matter fa porre un importante interrogativo sulle parole del giovane, biondo messia: e se avesse sempre avuto ragione sui Pearl Jam?

Facciamo un passo indietro. Se per i Nirvana i modelli musicali erano band come i Pixies, i Meat Puppets o i Flipper, o oscuri brillanti del pop come gli Shocking Blue e i Vaselines, e per i Soundgarden le due band che componevano il loro soprannome (“Led Sabbath”), per i Pearl Jam, usando le orecchie, non veniva in mente nessuno di particolarmente punk, né precursori del metal, né oscuri riferimenti di pop o rock, ma solo giganti del mainstream come i Bad Company, mai particolarmente amati dai musicisti, anzi spesso usati come paradigma del rock “sbagliato” (come accadeva per il pop e Billy Joel). Chiarissime le ambizioni di successo sopra ogni cosa di Stone Gossard e Jeff Ament, pur parte delle origini del genere con i Green River, che già con i Mother Love Bone erano lontanissimi da ogni “alternativa” e molto più vicini al rock losangelino tanto disprezzato da Seattle.

Premessa questa inutile diatriba semantica e di etica musicale, e considerato che l’aggettivo “grunge” (che vuol dire “sporco, lercio, disgustoso”, in riferimento al suono estremamente – e volutamente – poco rifinito e limato) ai Pearl Jam venne applicato solo e meramente per questioni geografiche e commerciali, ché se fossero spuntati fuori dal Texas nessuno si sarebbe mai sognato di chiamarli “grunge” per nessun motivo al mondo, i Pearl Jam degli anni Novanta ci hanno regalato almeno due capolavori e capisaldi della storia del rock. Non solo: hanno prodotto quasi solo dischi “onesti”, nei quali l’ambizione per il successo non minava mai il contenuto, come accadde invece con gli innumerevoli emuli ed emuli degli emuli della loro formula vincente. Eccoci qui, trentatré anni dopo il loro esordio, a rispondere a Cobain: no, Kurt non aveva ragione a lamentarsi, i Pearl Jam facevano semplicemente musica che era molto lontana dai suoi valori musicali, ma mai disonesta, mai “sell-out”.

Fast forward alla ragione per cui oggi ci poniamo questa domanda: “Dark Matter”, dodicesimo album della band di Seattle, registrato agli Shangri-La di Malibu, studi di Rick Rubin, con la produzione dell’ormai richiestissimo Andrew Watt, che con Stones, Ozzy e Iggy Pop aveva già fatto un lavoro sonoro eccellente; e anche qui è difficile lamentarsi del suono: chiaro, limpido, potente, mixato in maniera eccellente. E allora perché quell’interrogativo? Bastano pochi secondi di Won’t Tell per capirlo, che, con tutto il rispetto, suona come un pezzo recente di Vasco Rossi, e ci perdoneranno i fan del Blasco se l’aggiunta dell’aggettivo “recente” rende l’affermazione tutto fuorché un complimento. Eppure il primo singolo Dark Matter, aperto da un ottimo riff di batteria di Matt Cameron, seppur non originale aveva fatto ben sperare – speranze rivelatesi immediatamente vane all’uscita dei due singoli successivi, l’imbarazzante Wreckage, che tenta di ricreare la magia riuscita in “Yield” (1998), e Running, dal basso pulsate e le chitarre graffianti, con un riff che vorrebbe essere punk ma che risulta una versione meno riuscita di Sum 41 e Blink-182.

E allora, visto che ormai saranno almeno una quindicina di anni che la band ha davvero poco da dire, musicalmente, non sarebbe più sano andare oltre e cercare di fare qualcosa di veramente interessante, invece che la profezia dell’angelo biondo di una band che non riesce a mollare l’ambizione del successo di massa e le imbarazzanti recensioni compiacenti di un oceano di sicofanti, ai quali poi raccontano nelle interviste di come “finalmente abbiamo fatto un album spontaneo” o roba simile per poi presentare indegni pezzi che sembrano z-side scartate da un album solista di Vedder come Something Special?

Il sogno di dominare il mondo di Ament e Gossard è ormai riuscito, non c’è niente che gli sia mancato nella carriera se non l’onestà intellettuale di ammettere di continuare a tirar fuori album gradualmente sempre peggiori solo per innescare il ciclo interviste-pubblicazione-promozione-tour, certamente remunerativo (per band come loro). Ma è di remunerazione che hanno bisogno, a questo punto della loro carriera? Sarebbe invece interessante sapere cosa realmente hanno da dire Gossard, Ament, Vedder, McCready, Cameron, da soli o insieme che sia, e se non è di successo come “Ten” (1991) o “Vitalogy” (1994) pazienza, ma che almeno abbia la stessa onestà.

2024 | Monkeywrench/Republic

IN BREVE: 2/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.