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Royal Blood – Typhoons

La vocazione danzereccia del duo di Brighton non è mai stata particolarmente occulta. Certo, i suoni prodotti dal basso di Mike Kerr sono sempre stati più affini a quelli della chitarra del santo patrono Josh Homme (da sempre loro strenue supporter) e la batteria di Ben Tatcher aveva forse più in mente Bonzo e Dave Grohl che Dennis Bryon o John Robinson quando pestava le pelli come un dannato nei precedenti “Royal Blood” (2014) e “How Did We Get So Dark?” (2017). Nonostante ciò, la vocazione melodica dei loro grandi successi abbinata ad un certo groove aveva già la tendenza a far muovere un po’ il culo. E allora perché, si sarà chiesto un disintossicato Kerr, non spingere l’acceleratore proprio in quel senso?

“Perchè tutte queste sostanze / che danzano nelle mie vene / non uccidono la causa / anestetizzano solo il dolore / ho bisogno di svegliarmi”, canta Kerr nel pezzo che dà il titolo all’album, ed è questo il tema trainante del terzo album del gruppo inglese: la ritrovata sobrietà del suo frontman informa la larghissima parte delle tematiche affrontate in Typhoons e, del resto, dice proprio quest’ultimo, senza ripulirsi dall’alcool quest’album non sarebbe esistito, né probabilmente sarebbero continuati i Royal Blood.

E già dalla introduttiva Trouble Coming si muove il culo, tanto che subito dopo il riff ci si aspetterebbe la voce vocoderizzata di uno dei Daft Punk, perché sembra di aver messo inavvertitamente “Discovery” del duo francese; ma non è di certo un disco di elettro-dance, anzi, nonostante i synth facciano capolino in diverse occasioni (come l’intro di Million And One), il duo macina riff e beat al punto che la traccia che dà il titolo all’album si avvicina più agli ZZ Top di “Doubleback” che non a “I Feel Love” del maestro Moroder.

“Typhoons” è un album largamente autoprodotto dal duo, con due notabili eccezioni: il pluri-mega-cata-ultra premiato produttore inglese Paul Epworth per Who Needs Friends, e, soprattutto, Josh Homme per Boilermaker, pezzo migliore dell’album insieme al terzo singolo Limbo; bisogna dire che Kerr e Tatcher hanno fatto i loro compiti a casa per bene, dato che il livello di produzione è molto alto, e i suoni curatissimi. Basti poi ascoltare qualche versione live dei pezzi per sentire quanto siano più ruvidi, e apprezzare la raffinatezza del lavoro sonoro dei due. Certo, il costante tiro dell’album – interrotto solo dalla conclusiva ballata All We Have Is Now – talvolta è un po’ soffocante, forse vittima della struttura largamente immutata per quasi ognuno dei pezzi, con riff incessante ad introdurre, verso mononota che carica il ritornello e apertura a quest’ultimo, che esplode. E i testi, pur apprezzabili per l’analisi introspettiva del momento difficile di Kerr, non è che siano proprio equiparabili a Keats o Shakespeare.

Ma a differenza del secondo, deludente “How Did We Get So Dark?” (2017), “Typhoons” mostra maturità, direzione e, cosa non indifferente, una notevole quantità di canzoni di buonissimo livello, forse a volte troppo smaccatamente mirate ad essere radiofoniche, ma piacevoli da ascoltare e ottime per muovere il culo. E, come disse anni or sono l’ineffabile Chandler Bing, “that’s pretty much all I’m looking for from these people”.

(2021, Warner / Black Mammoth)

01 Trouble’s Coming
02 Oblivion
03 Typhoons
04 Who Needs Friends
05 Million And One
06 Limbo
07 Either You Want It
08 Boilermaker
09 Mad Visions
10 Hold On
11 All We Have Is Now

IN BREVE: 3,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.