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Sault – Untitled (Rise)

“Chi diavolo sarebbero ‘sti Sault?”. Questa sembrerebbe la domanda principale che la critica internazionale si pone sempre più intensamente ad ogni uscita, molto probabilmente perché ad ogni uscita (siamo al quarto album in sedici mesi, e al secondo doppio album dell’anno) si rende sempre più necessario parlare di questo collettivo (di questa band? Di questa organizzazione no-profit? Di questi ragazzi?). Ed è consuetudine – una consuetudine della quale ci rendiamo colpevoli, è innegabile – infarcire le recensioni di informazioni su chi, come, dove, quando. Sembra sinceramente superfluo chiacchiericcio da portinaie a descriverlo così, ma in realtà serve a dare importanza alla musica, al suo significato, alla quinta e ultima delle domande necessarie: “Perché?”. Trascende nel chiacchiericcio da portinaie a volte, certamente, ma concettualmente non è superfluo sapere chi ti sta parlando e perché lo sta facendo.

Ma, nel caso dei Sault, il messaggio è talmente enorme e il perché talmente evidente, che tutto il resto sembra evidentemente inutile. A Giugno avevano pubblicato “Untitled (Black Is)” in risposta alla morte di George Floyd e il messaggio viene ribadito in maniera ulteriormente efficace in questo Untitled (Rise), uscito a breve distanza dal predecessore: “Got to stay strong / Even when they’re wrong / Worship the skin I’m in ‘cause I love my colour”, da Strong; “Yeah, I see your little post, talking ‘bout “BLM is my motto”/ But you know it ain’t”, da You Know It Ain’t; “Got to find my way out / I’m sick of hearing lies / Why my people always die?”, da I Just Want To Dance; “Maybe you’re uncomfortable / With the fact we’re waking up / How do you turn hate to love?”, da Uncomfortable.

Potremmo continuare a elencare ma, come potete vedere, il messaggio è forte e chiaro. E se prima dicevamo che oltre al messaggio il resto è inutile, non intendevamo certo sminuire il valore musicale di “Rise” per esaltarne il solo valore sociale. Anzi, è la musica a essere il messaggio, ancor prima delle parole che nel missaggio non hanno un ruolo di preminenza assoluta, ma sono uno strumento al servizio del tutto. La musica, linguaggio universale di comunicazione, qui frutto ideale di almeno un centinaio di anni di patrimonio di musica ballabile. Sì, perché musicalmente qui il focus è certamente la dancefloor: eccellente, straordinaria musica dance frutto di influenze che vengono dal funk, dal pop di Michael Jackson di “Off The Wall” e “Thriller” (dei quali Son Shine è certamente figlia), dal Philly Soul e ancora da tante altre fonti “black” dalle quali i Sault si sono abbeverati per produrre quest’album, persino la batucada brasiliana, che nell’introduttiva Strong rimbomba poderosa ma infusa di una malinconia che poco ha a che fare con la saudade.

È infatti il forte contrasto tra i testi, ricchi di passione, di voglia di combattere un’ingiustizia che continua dopo secoli a essere una piaga, di tristezza per tutti i fratelli perduti, e la liberatoria ballabilità e cazzimma della musica: “I just want to dance / Makes me feel alive / I kind of get mad / We lost another life” canta una voce femminile – probabilmente la cantante inglese Cleo Sol – in I Just Want To Dance. La voglia di non sentirsi impotenti e la forza di voler cambiare le cose, anche attraverso la musica: questo è “Rise” che, non casualmente, è uscito per il Juneteenth, ovvero il diciannove di Giugno, giorno che in America è festivo per la celebrazione della fine della schiavitù negli Stati Uniti.

Niente interviste, niente foto, niente video, niente concerti: sappiamo solo che ci sono di mezzo Inflo (produttore di Michael Kiwanuka e dell’eccellente album di Little Simz dell’anno scorso, “Grey Area”), la citata Cleo Sol, tal Kadeem Clarke, turnista nell’ultimo di Kiwanuka, e la rapper americana Kid Sister. Ma forse stavolta faremmo meglio ad ascoltare ciò che questi ragazzi hanno da dire, invece di concentrarci su chi lo stia dicendo: “Little boy, little boy, when you get older / You can ask me all the questions / And I’ll tell you the truth about the boys in blue”, così canta Cleo Sol nella conclusiva Little Boy, potentissima quanto dolce ballata di un moderno r’n’b che ricorda non casualmente l’ottimo Kiwanuka, ed è importante che il mondo ascolti.

“Rise” non è solo uno dei migliori album dell’anno (così come “Black Is”, spigoloso predecessore), ma il quarto capitolo di una saga estremamente affascinante quanto misteriosa, che porta uno straordinario messaggio musicale a sorreggere ciò che è incredibile debba ancora oggi, nel 2020, essere oggetto di protesta.

(2020, Forever Living Originals)

01 Strong
02 Fearless
03 Rise
04 I Just Want To Dance
05 Street Fighter
06 Son Shine
07 Rise Intently
08 The Beginning & The End
09 Free
10 You Know It Ain’t
11 Uncomfortable
12 No Black Violins In London
13 Scary Times
14 The Black & Gold
15 Little Boy

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.