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Solange – When I Get Home

Una voce soave, accompagnata da un piano elettrico, canta “I grew up a little girl / With dreams”. Qualcosa, tuttavia, è inusuale. La parola “dreams” si ripete. Due, tre, quattro, cinque… che si sia incantato qualcosa? Beh, difficilmente Spotify potrebbe ripetere la stessa parola come un vecchio giradischi a cui salta la puntina. Finalmente la melodia e il testo vanno avanti: “Dreams, they come a long way, not today”.

Una breve frase melodica assecondata dal basso, che la segue pedissequamente. Una drum machine estremamente minimale, come vuole la trap, accompagna il tutto. La frase si ripete per quasi tutto il resto del pezzo, ipnoticamente, in un raffinato e minimale mantra. Solange Knowles non è un’artista facile. Nonostante le doti innate nel creare linee melodiche memorabili, nonostante un talento nell’essere mai banale armonicamente, non sceglie mai la strada facile. When I Get Home, seguito dell’eccellente “A Seat At The Table” del 2016 uscito a sorpresa il primo giorno di Marzo, è minimale, esagerato, ipnotico, audace, psichedelico.

Inizia con un altro mantra (“I saw things I imagined”) e prosegue nel creare brevi, talvolta sognanti, talvolta inquietanti, ma sempre musicalmente eccellenti frammenti musicali: divaga, sogna, eccede, naviga sicura, come un’eccellente comandante, tra i mari tempestosi di trap, jazz, soul anni ’60, psichedelia, il neo soul di più recente fattura, il “chopped and screwed” degli Stati Uniti del Sud – del resto l’intero album ha come sfondo e probabilmente come dedica la nativa Houston, nel Texas (da qui il titolo “quando torno a casa”) – ed in soli trentanove minuti crea diciannove piccole mini-opere. Quello che una volta si chiamava “concept album”, prerogativa di maschi bianchi e nel tempo diventato sinonimo di “rottura di coglioni”, spesso ricolmo di riferimenti a improbabili storie fantasy.

Solange probabilmente se ne disinteressa, racconta quello che “sente”, produce e scrive tutto, fino al minimo dettaglio. Non lascia niente al caso e ne va fiera, la sua enorme personalità sovrasta il larghissimo cast di ospiti di altissimo livello: Panda Bear, Sampha, Tyler, The Creator, Earl Sweatshirt, The-Dream, Raphael Saadiq… personalità estremamente forti che, tuttavia, di fronte alla magniloquenza dell’ambizione dell’artista texana sono meri strumenti, usati in maniera eccellente ed efficiente, funzionale al raccontare la storia.

Pezzi più immediatamente orecchiabili come Way To The Show o Stay Flo assumono un significato sonoro completamente diverso all’interno di “When I Get Home” nel suo complesso, studiato per ascolti ripetuti e forse non immediatamente gratificante. Il capolavoro Almeda, che spezza l’album in due, è anche il pezzo più lungo del disco coi suoi quasi quattro minuti e rappresenta artisticamente il massimo del messaggio all’interno dell’album: “Black faith still can’t be washed away / Not even in that Florida water / Not even in that Florida water / In that Florida water”. Un album capolavoro che afferma Solange come una delle voci più innovative e meno convenzionali del nuovo millennio.

(2019, Columbia)

01 Things I Imagined
02 S McGregor (Interlude)
03 Down With The Clique
04 Way To The Show
05 Can I Hold The Mic (Interlude)
06 Stay Flo
07 Dreams
08 Nothing Without Intention (Interlude)
09 Almeda
10 Time (Is)
11 My Skin My Logo
12 We Deal With The Freak’n (Intermission)
13 Jerrod
14 Binz
15 Beltway
16 Exit Scott (Interlude)
17 Sound Of Rain
18 Not Screwed! (Interlude)
19 I’m A Witness

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.