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Vinicio Capossela – Canzoni della Cupa

canzonidellacupaVinicio Capossela è ormai uno di quelli che divide l’opinione pubblica a metà, tra chi lo idolatra e lo considera un poeta, un eroe, ma che dico eroe, un semidio, ma che dico semi, un dio tutto intero e chi non solo non ascolterebbe un suo intero disco neanche stipendiato, ma proprio non lo tollera come concetto, che pppalle ‘ste cazzo di cacate da sagra della salamella piccante e che pppalle ‘sta cantata biascicata, ‘sti cappelli, st’atteggiamento di chi la vita l’ha capita.

Ci è doveroso premettere che non sottoscriviamo né l’una né l’altra tesi, ma che troviamo la seconda snobistica, snobistica in quella peculiare, intollerabile maniera che abbiamo noi italiani nei confronti di chi in qualche modo arriva (da qualche parte – la critica chiave qui giunge dal successo, e solo in misura ampiamente secondaria dai soldi), di chi in fin dei conti fa qualcosa, e quel qualcosa diventa insopportabile non appena arriva un qualche riscontro. Intendiamoci, talvolta non esiste cosa più giusta che la critica nei confronti di chi ottiene un successo “vuoto”, esempi recenti ne siano i successi intercambiabili dei ragazzini dei talent, spremuti fino al midollo, assegnati a progetti artistici imbarazzanti e sostituiti a data di scadenza superata con equivalenti che vengono accolti da un pubblico di “enni” come fossero cloni.

Ma sempre più spesso in anni recenti accade che chi “arriva” immediatamente divida il pubblico in due fazioni, con una terza fazione (che include i genuinamente disinteressati, gli ignavi e i “checcazzomenefotte a me, c’è il moviolone”) che si inserisce spesso nella diatriba per insultare entrambi. È successo per esempio con Sorrentino e la sua Grande Bellezza. Succede a Manuel Agnelli a ogni sua esternazione. Succede, e torniamo in carreggiata, al buon Vinicio. E questo snobismo raramente include la popolaglia (che si colloca salda nella terza fazione, salvo eccezioni), lo snobismo deriva da posizioni di superiorità, da quelli che ne sanno, da quelli che te lo insegnano loro che cos’è la vera arte, la vera musica, il vero cinema, persino il vero sport. Te la spieghiamo noi la vita.

È chiaro che questa è una grossolana generalizzazione scevra di sfumature, ma crediamo non sia distante dalla realtà; e la realtà è anche che Capossela sono anni che, arrivato, fa quel che gli pare, e quel che gli pare è una profonda ricerca, dall’opera di mare di “Marinai, profeti e baleneal viaggio nella Grecia del “Rebetyko Gymnastas”, dai progetti collaterali fino all’epopea, iniziata nel 2003 e covata sin da allora, di questo Canzoni della Cupa.

La Cupa, che sarebbe una contrada situata in Irpinia, terra di suo padre, è buia, oscura, è terra di leggende. E già ci sarà chi, a questa frase si fustigherà come facevano Aldo, Giovanni e Giacomo nei “Corti” ormai più di vent’anni fa e chi, con gli occhi a cuoricino, ti narrerà le lodi del buon Vinicio. Abbiate entrambi pietà, abbiate pazienza, lasciateci dire.

“Canzoni della Cupa” è un disco in eterna lavorazione sin dal 2003, ciò significa – abbastanza lapalissianamente – che Capossela ci lavora, in un modo o nell’altro, da 13 anni. Ora, questa non è certamente una garanzia di qualità (basti vedere quella porcata oscena di “Chinese Democracy” come prova definitiva), ma dimostra una sincera affezione del cantautore per il progetto e per l’argomento.

Progetto e argomento: in Italia saranno visti sostanzialmente come possibile indizio di rottura di coglioni da parte di chiunque non sia strettamente della fazione a favore, per tornare al discorso fatto in precedenza. Il contenuto, piaccia o meno Vinicio, frutto di un progetto e di un argomento da trattare, rispecchia la volontà di ricerca, la definita concezione che il cantautore aveva per “Canzoni della Cupa”. Un progetto al quale è chiaramente affezionato in quanto canzoni della propria terra d’origine (altro campanello d’allarme: le canzoni popolari “hanno rotto il cazzo”, dicevamo) e altresì in quanto argomento che va d’accordo con l’autore: la Cupa, la contrada oscura dove non batte il sole, fatta di spiriti, leggende, bestie, donne, donne, e ancora donne. La Cupa con le ombre e con la polvere, la Cupa buia e misteriosa, la tradizione non addolcita o mistificata, ma presentata col suo straordinario campionario di vita, il rurale come linguaggio universale (il tex mex che emerge di tanto in tanto sembra quasi qualcosa di “nostro”) e infine la luce e l’oscurità, misteriose chiavi della vita umana sin dall’alba dei tempi, prima delle religioni, prima della società, persino.

É chiaramente un disco mastodontico, che necessiterebbe di una lunga analisi che annoierebbe i più e che richiederebbe un tempo e una ricerca che non è propria di questi luoghi. In quanto disco mastodontico però si possono tracciare quanto meno delle line guida: esistono all’interno di esso numerosi filoni, quali il canto popolare (talvolta quasi proprio del field recording, come nel caso di Femmine), il cantautorato propriamente caposseliano (Scorza di mulo), le canzoni di frontiera dal sapore vagamente mariachi (non a caso sono stati chiamati David Hidalgo dei Los Lobos, Flaco Jimenez e i due Calexico, oltre a numerosi altri musicisti) e il folk più nettamente paesano, che cammina spesso in equilibrio su un sottile filo col rischio di cadere nella musica da festa del cotechino.

Il risultato è un’opera che, con i suoi difetti (che i santificatori ignoreranno), è ricca, è ordinata e bilanciata sapientemente, porta la firma della personalità dell’autore nonostante l’ampia quantità di influenze e riferimenti (non ultimo il cantante folk pugliese Matteo Salvatore, considerato che Il bene mio è una sua cover tradotta, come altri pezzi di quest’album). È ovvio che questo difficilmente può essere un punto di partenza per chi sconosce il cantautore, né sarà quest’album a convertire la fazione avversa: al contrario, rinforzerà il canto di chi con forza urla che il folk nostrano ci ha rotto i coglioni. É un’opera, però, che merita lodi e che ha quel pregio ormai perso nell’era di Spotify e YouTube di crescere con gli ascolti, ammesso e non concesso che il tempo necessario ad apprezzarne le sfumature gli sia dedicato.

E se le fazioni smettessero di litigare forse si accorgerebbero che Capossela forse ha smesso di crescere, e si crogiola nell’essere Vinicio, per quanto gli riesca bene. E ciò è un problema, perché talvolta è un po’ troppo se stesso e sembra non dire niente di nuovo neanche in progetti molto diversi tra loro. Ma si accorgerebbero pure che, nonostante ciò, e al netto dei sempre più che legittimi gusti che come spesso viene ricordato con un’ellissi di una perifrastica passiva del saggio Giulio Cesare non si discutono, Capossela produce opere che come minimo meritano se non l’ascolto, quantomeno il rispetto che si deve ad un artista di rilievo, per risultati e intenti.

(2016, Warner)

Polvere
01 Femmine
02 Il lamento dei mendicanti
03 La padrona mia
04 Dagarola del Carpato
05 L’acqua chiara alla fontana
06 Zompa la rondinella
07 Franceschina la calitrana
08 Sonetti
09 Faccia di corno
10 Pettarossa
11 Faccia di corno – L’aggiunta
12 Nachecici
13 Lu furastiero
14 Rapatatumpa
15 La lontananza
16 La notte è bella da soli

Ombra
01 La bestia nel grano
02 Scorza di mulo
03 Il Pumminale
04 Le creature della Cupa
05 La notte di San Giovanni
06 L’angelo della luce
07 Componidori
08 Il bene mio
09 Maddalena la castellana
10 Lo sposalizio di Maloservizio
11 Il lutto della sposa
12 Il treno

IN BREVE: 4/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.