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William Patrick Corgan – Ogilala

Basta un secondo per dire addio, servono vent’anni per tornare a casa. Billy Corgan ha occhi stanchi, ha un volto ammaccato, le delusioni gli hanno creato certe increspature che neanche la vecchiaia sa scavarle così a fondo. Vent’anni sono tanti. Perché, sì, tutto ciò che è successo dalla fine degli Smashing Pumpkins a oggi, va raccontato per quello che è: un percorso pieno di sbandate, un tragitto incerto, una serie di cicatrici (forse) necessarie.

Ma d’altronde, Billy non è il solo ad esser stato punto da questo bug del millennio: quasi tutti gli idoli degli anni Novanta hanno sbattuto la testa al passaggio dei paradigmi temporali. Quasi ci fosse uno stargate che li rifiutasse, quasi fossero sputati via come noccioli d’oliva. Gli imbarazzanti Zwan (2001), il pretenzioso primo disco solista “TheFutureEmbrace” (2005), la seconda tragica esperienza a nome Pumpkins (2007-2014) sono buchi neri, deturpazioni, segni indelebili e dannosi. E ci si mette un secondo per finire inghiottito dal baratro, ci vogliono vent’anni per riemergere.

Ogilala ci dà questa speranza. E lo fa in pochi istanti. Telefonate tra innamorati di Billy che gridano al miracolo. Domande pregne di foga: “È tornato? È davvero lui?”, quasi lo vedessimo in fondo al vialetto percorrere la strada col suo fagotto. Undici canzoni tutte acustiche in cui Billy, anzi William Patrick (come compare sulla cover) torna se stesso: cantore di melanconie pure, sognatore di mondi altri, musicista delicato, cantante da sogno. Billy, insomma. Quello che l’avremmo seguito ovunque nelle sue sortite dall’alba al tramonto, dal crepuscolo alla notte stellata. Parlavamo di ferite necessarie, Billy le canta soffiandole sul pianoforte di Zowie (“La vita continua a scorrere più veloce delle tue cicatrici”) ed è una dichiarazione d’amore verso la musica e il presente.

Il tempo – forse è ormai chiaro – è l’elemento centrale di questo disco. Il tempo necessario per tornare a casa. È Processional a prendersi la responsabilità di fungere da concept: alla chitarra c’è il vecchio amico James Iha (prove di riavvicinamento?), Corgan apre la voce come non ricordavamo da tempo e, con il suo timbro inconfondibile, insiste sul tema. “It’s a long way / It’s a long way to get back home” – strilla, dove il gioco di sensi della parola “way” (“strada” e “modo”) rende perfettamente l’impressione della fatica immane per uscire dal guado.

In Aeronaut, invece, viene fuori il lavoro di Rick Rubin alla produzione. Perché il brano è un funky con ritmo pericoloso. Pericoloso perché, inserito in un costrutto rock, sarebbe potuto deragliare malamente. Invece Rubin dice a Billy di restare etereo, dice che questo brano con l’orchestra avrebbe fatto sognare, anzi di più “volare sul dorso di un cuore magico” come invita Corgan nel suo testo. E così è stato. E a proposito di poesia, segnatevi il verso iniziale di Half-Life Of An Autodidact:

L’amore è uno stupido?
È una goccia salmastra?
Protetta come una baia color lilla,
divenuta, per via del respiro del sole,
nuda e diffusa.

Caro Billy, anzi William, non farci sentire più stupidi. Promesso?

(2017, BMG)

01 Zowie
02 Processional
03 The Spaniards
04 Aeronaut
05 The Long Goodbye
06 Half-Life Of An Autodidact
07 Amarinthe
08 Antietam
09 Mandaryne
10 Shiloh
11 Archer

IN BREVE: 5/5