
Frank Zappa. Un nome, un mondo. Uno di quelli che quando metti il vinile sul piatto e parte il primo giro di Inca Roads, capisci subito che stai entrando in una dimensione altra, dove la musica non è solo suono, ma anche teatro, ironia, irriverenza, tecnica sopraffina e un pizzico di follia. Con One Size Fits All, Zappa ci regala 42 minuti di pura esperienza musicale, dove ogni nota sembra voler smontare e ricostruire i codici del rock, del jazz, del blues e sì, anche del prog, per il solo gusto di dimostrare che si può fare diversamente. Questo album, pubblicato nel 1975 e accreditato ai Mothers Of Invention, è una specie di laboratorio galleggiante, sospeso tra il classic rock e le derive psichedeliche più sofisticate. Ma attenzione: se cercate il prog canonico, quello dei tappeti di tastiere e dei lunghi assoli epici, qui troverete qualcos’altro. Qualcosa di più Zappa.
Inca Roads apre le danze con un’esplosione di cambi ritmici, un groove sincopato e una narrazione surreale: un veicolo volante tra le Ande, cantato in falsetto, perché no?, e arrangiato come solo Frank sapeva fare. È uno dei pezzi più complessi e affascinanti dell’album, con George Duke alla voce e ai synth che si diverte a giocare con la struttura, e Ruth Underwood che infila colpi di percussioni degni di uno stormo di uccelli meccanici. Poi si passa a Can’t Afford No Shoes, rock spinto e allegro, quasi radiofonico, se non fosse per quell’ironia che taglia il brano a metà. È uno dei momenti più accessibili del disco, una piccola sosta in un viaggio decisamente più tortuoso. Zappa qui si diverte a essere quasi normale, ma solo per un attimo.
Tra i momenti più memorabili c’è sicuramente Po-Jama People, un blues potente in cui Zappa si scaglia contro la noia incarnata, quei “po-jama people” (alcuni compagni di band del tour 1973-1974, con cui era noioso andare in tour) che sembrano vivere in pantofole anche nella testa. Il brano pulsa con una forza essenziale, spinto dalla chitarra di Frank e dalla sua voce volutamente poco virtuosistica, ma efficace. E poi c’è Florentine Pogen, un gioiello di bizzarria funky-jazz che sembra uscito da una sitcom aliena. I cambi di tempo, la voce di Duke, la scrittura contorta eppure orecchiabile: tutto parla di un autore che non ha mai avuto paura di osare. Qui troviamo il DNA zappiano distillato con precisione chirurgica.
Ma “One Size Fits All” non è solo una parata di pezzi strambi. Brani come Andy e le due versioni di Sofa mostrano il lato più orchestrale e, per certi versi, classicheggiante dei Mothers. In Andy, la struttura narrativa è più definita, quasi teatrale, mentre Sofa No. 1 e No. 2 ci portano in territori melodici epici, con un finale cantato in tedesco che chiude il disco con un sorriso beffardo. Ciò che colpisce davvero è la coerenza dell’assurdo. I testi? Bizzarri, ironici, volutamente insensati o ridotti all’osso. Non c’è messaggio, non c’è morale: Zappa smonta la canzone come forma narrativa, la riduce a puro mezzo musicale. Non vuole raccontare storie, ma evocare immagini, situazioni, personaggi improbabili. È come se dicesse: “La musica è già tutto quello che serve”.
E in mezzo a tutto questo, i musicisti. Strepitosi. Ognuno porta un pezzo di virtuosismo al puzzle zappiano: Duke, Underwood, Chester Thompson alla batteria, Tom Fowler al basso. Una band che suona con la testa e col corpo, perfettamente allineata alla visione del Capitano Zappa. In definitiva, “One Size Fits All”è un album denso, intelligente, impegnativo. Non è forse il più famoso tra i lavori di Zappa, ma è essenziale per capirne il genio. È uno Zappa a metà tra l’icona freak e il compositore rigoroso, tra il comico e il matematico del suono. Un disco che, come dice il titolo con ironia, non va bene per tutti, ma per chi ci entra dentro può diventare una porta d’accesso definitiva a un mondo musicale senza confini.