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Pet Sounds, i Beach Boys e la danza delle contraddizioni di Brian Wilson

Brian lo schizofrenico, il pedante, il pacioccone. Brian sordo da un orecchio per le bastonate di papà ma dotato di un udito canino. Brian con la faccia da ragazzino e una mente che troppo spesso lo tormenta e solo ogni tanto lo fa sorridere. Brian che a ventitré anni scrive partiture per venti strumenti, dirige un’orchestra di sessanta elementi, arrangia, interpreta ogni singolo pezzo e subito dopo piange mentre guarda Flipper, il suo telefilm preferito. Brian Wilson che ascolta “Rubber Soul” dei Beatles e capisce che ha passato troppo tempo a esibirsi su un palco invece di dare una forma alle sue allucinazioni uditive. Brian Wilson che quando i giornalisti gli chiedono se abbia fede in Dio risponde che non è certo della sua esistenza ma che di sicuro crede in Phil Spector. Brian Wilson che mentre ascolta Burt Bacharach affonda i piedi nella sabbia con cui ha ricoperto il salotto di casa.

La cultura, dice Greil Marcus, opera in modi misteriosi servendosi, talvolta, di campanellini, lattine di coca cola, bottiglie di vetro, becchi d’oca, attache e forcine. Su questa danza di contrasti nacque Pet Sounds, undicesimo album dei Beach Boys e precedente storico tra i più influenti del mondo. A metà del 1965, i Beach Boys partono per l’ennesimo tour promozionale, a cui Wilson si sottrae per la seconda volta. Un anno prima, in seguito a un attacco di panico durante un volo, aveva manifestato l’intenzione di non esibirsi più dal vivo. Da quel momento in poi, il basso e la voce di Wilson sarebbe stati sostituti prima con Glen Campbell e poi con Bruce Johnston.

Alla partenza dei ragazzi, Brian è finalmente autonomo e decide di rimettersi a scrivere seguendo uno schema per nulla casuale. Ha dei suoni in testa e intende riprodurli esattamente come li suo udito canino gli suggerisce di fare; per farlo, utilizza qualsiasi cosa vivente o inanimata che sia. Così viene fuori You Still Believe In Me, pizzicando le corte del pianoforte con forcine e becchi d’oca e inserendo a metà traccia trombette e un campanello da bici. La title track, uno strumentale cinematografico costruito su un tempo scandito lastre di legno e bottiglie vuote, mentre la melodia procede su una chitarra suonata con la linguetta di una lattina per simulare l’effetto semi steel. Brian ha intenzione di calibrare alla perfezione le atmosfere del disco, così alterna brevi intermezzi vocali e strumentali alle enormi armonie delle tracce: l’arpa iniziale che precede il rullante secco di Wouldn’t Be Nice o le brevi strofe che inseguono i crescendo di Sloop John B sono gli espedienti eccellenti riproposti in altre future tracce di Wilson (una tra tutte, “Good Vibration”).

Il terzo punto dello schema di Brian prevede di ridurre drasticamente i cori e aumentare gli strumenti. Durante le sessioni di “Pet Sounds” c’è un pezzo di cui Brian va particolarmente orgoglioso: Lets Go Away For A While con i suoi dodici violini, piano, oboe, vibrafoni e una manciata di sax che danno vita al primo strumentale in ordine di tracklist, a conclusione di un lato A impeccabile. La parte lirica di “Pet Sounds” fu affidata a Tony Asher, giovane pubblicitario londinese che eseguì pedissequamente le indicazioni di Wilson su testi incentrati sul passaggio dalla gioventù all’età adulta, sul senso di inadeguatezza di Brian all’interno del gruppo (“Ogni volta che voglio cambiare tutto, nessuno è disposto ad aiutarmi”, canta in I Just Wasn’t Made For These Times). Lavoro non semplice se si pensa a quante volte Asher fu interrotto da Wilson durante la lavorazione del disco per fermarsi a osservare “il suo pappagallo meccanico”.

In America “Pet Sounds” non piacque a nessuno: non ai Beach Boys e alla Capitol che intendevano cavalcare la cresta dell’onda californiana di cui il gruppo era sovrano assoluto; non piacque neanche al pubblico che rimase spiazzato dall’assenza di testi freschi e melodie rock da surfisti. In Inghilterra invece vantò ascoltatori d’eccellenza come Keith Moon, John Lennon e Paul McCartney, che rimasero scioccati dall’opulenza del disco tanto da prendetelo a riferimento per “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. “Pet Sounds” fu la prova tangibile della genialità, mai lucida, di Brian Wilson e rappresentò l’ultimo impulso liberatorio di un artista che da quel momento in poi avrebbe perso ogni forma esistente di autonomia, che si trattasse di scrittura creativa, di amministrazione patrimoniale, di gestione di vita personale. Un uomo, ancora oggi, sotto il giogo coercitivo, spinto chissà da chi o da cosa a trascinarsi sui palchi di tutto il mondo, sostenuto da un girello e inabile a raggiungere le vocalità folli frutto della sua mente. La stessa che continua a farlo scoppiare in lacrime durante l’esecuzione delle tracce di “Pet Sounds”.

Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.