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Bruce Springsteen – Wrecking Ball

Gli album che hanno per argomento la drammatica crisi economica che ha colpito il mondo occidentale hanno ormai saturato le nostre audioteche. Ma c’era un artista che ancora non ci aveva dato la sua preziosa versione delle “canzoni del crollo”, e quest’artista altri non è che Bruce “Born in The U.S.A.” Springsteen, il Boss, la leggenda, quello che scende in campo per Obama, l’uomo che difende i deboli, il Boss vi diciamo, l’idolo di grandi e piccini, quello le cui chiappe campeggiavano sulle pareti di un’infinità di teenager ai tempi in cui ci raccontava di danzare nel buio. E tutti questi titoli, spesso sventolati in pompa magna dalla stampa amica e condiscendente, il Boss se li è guadagnati sul campo, c’è da dirlo: i suoi capolavori, anche quelli più oscuri come “Nebraska”, reggono alla perfezione all’usura del tempo. Il problema, però, è che non bastano i titoli guadagnati in passato per fare un buon album; ci vorrebbero quelle robe… come si chiamano… ah, già, “canzoni”. Con buona parte della line-up del progetto “Seeger Sessions” e qualche ospitata di lusso sia della E-Street Band (il compianto Clarence Clemons, scomparso di recente, Patti Scialfa ed il buon “Little” Steven Van Zandt su tutti) sia tra artisti estranei al mondo springsteeniano (Tom Morello alla chitarra e Michelle Moore, cantante gospel, che si lancia in un improbabile rap in Rocky Ground), il Boss in questo Wrecking Ball sfodera, tra uno sbadiglio e l’altro, le già esplorate influenze seegeriane mescolate ad un suono che sembra uscito dal 1984 per raccontarci della disillusione, della ricerca del (yaaaawn) sogno ammmericano, della voglia di rinascita e di altre cose che non sapremmo dirvi, perché crediamo d’esserci addormentati a metà. Al nostro risveglio, ci è venuto in mente il paragone con l’album – che tratta il medesimo argomento – di Ry Cooder (“Pull Up Some Dust and Sit Down” del 2011) e, francamente, sia a livello lirico sia a livello musicale, il confronto è assolutamente imbarazzante. Retorico, carismatico, ripetitivo, quasi monotematico: 100% Boss, senza però ciò che lo rendeva speciale, un irrilevante dettaglio chiamato “musica”. Non mancano momenti di buon livello, come la ballatona strappalacrime Jack Of All Trades, e raramente ci sono momenti offensivi per l’udito. La chiave di tutto sta nell’apripista (e primo singolo) We Take Care Of Our Own, rock midtempo dal suono datato che ti fa sperare che Bruce si scopra canadese e incominci a parlare di qualcosa di diverso. Il sound, la tematica, l’arrabbiatura non mancheranno di soddisfare i fan che hanno fatto incomprensibili file per acquistarlo alla mezzanotte, un po’ come i libri di Harry Potter. E, come i libri di Harry Potter, gli album del Boss ci piacevano di più prima, quando non erano cliché.

(2012, Columbia)

01 We Take Care Of Our Own
02 Easy Money
03 Shackled And Drawn
04 Jack Of All Trades
05 Death To My Hometown
06 This Depression
07 Wrecking Ball
08 You’ve Got It
09 Rocky Ground
10 Land Of Hope And Dreams
11 We Are Alive

A cura di Nicola Corsaro