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Savages – Silence Yourself

E’ bene chiarirlo subito, a scanso di equivoci: di nuovo in questo Silence Yourself, esordio delle Savages, non c’è una nota che sia una. Ma, visto che siamo in vena di onestà e di rivelazioni, diciamo anche che questo lavoro ci piace e non poco. Perché un conto è scopiazzare il passato portandosi pericolosamente ai limiti del plagio, ben altro è fare talmente proprio quello stesso passato tanto da suonare come fuori dal tempo. Alle Savages ciò è riuscito piuttosto bene, il che di per sé dovrebbe bastare a fargli raggiungere la sufficienza.

Poi, però, questa sufficienza le quattro ragazze di base a Londra la superano abbondantemente, col loro sound che fa agevolmente suoi i cliché di fine ’70 e inizio ’80. A cominciare dalla traccia d’apertura Shut Up e proseguendo poi per She Will o No Face, brani in cui la sezione ritmica è così marcatamente a cavallo fra il post-punk e la no wave da abbattere seriamente le barriere temporali.

In questi brani appena citati (e in altri) l’influenza di Siouxsie e dei suoi Banshees si rivela a dir poco seminale, oltre che nelle linee di basso anche nella prova vocale di Jehnny Beth, novella punk lady che non lascia all’immaginazione nessuno dei suoi punti di riferimento: Waiting For A Sign – pezzo più lungo dell’album coi suoi quasi cinque minuti e mezzo di durata – in tal senso non mente, con un incedere à la Patti Smith che sposta repentinamente il raggio d’azione della band da Londra a New York. In City’s Full lo scarno stridore tipico del punk lascia spazio a più strati chitarristici, mentre l’intermezzo Dead Nature è due minuti di sottofondi goticheggianti e ambientali, un po’ come se i Wire decidessero di mettersi a fare post-rock.

C’è anche tanta new wave in “Silence Yourself”, come ad esempio nella struttura di I Am Here o nei fiati e nel mood languido e teatrale della conclusiva Marshal Dear. Nonostante le tinte del lavoro siano nettamente tendenti al nero – con l’artwork che è un po’ il manifesto stesso del disco – “Silence Yourself” non è affatto un album monocromatico, ricco di sfumature, di spunti (non abbiamo nominato i Joy Division, ma sappiate che sono sempre dietro l’angolo) e di una rabbia tutta al femminile che si sente forte anche nelle lyrics. La Matador ha colpito ancora, promosse.

(2013, Matador / Pop Noire)

01 Shut Up
02 I Am Here
03 City’s Full
04 Strife
05 Waiting For A Sign
06 Dead Nature
07 She Will
08 No Face
09 Hit Me
10 Husbands
11 Marshall Dear