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Buñuel: Hardcore Will Never Die

Prendendo in prestito il titolo del settimo album degli scozzesi Mogwai, sembra davvero che l’hardcore sia destinato a non morire mai e a sopravviverci. La pensano in questo modo in tanti e anche i Buñuel, uno shaker con dentro tre grosse parti di rock italiano e una enorme di indipendente americano. Una formazione votata al post hardcore più sanguinolento che ha aperto le proprie danze in quest’inizio 2016 pubblicando A Resting Place For Strangers, esordio al fulmicotone che si fa forza di una delle chitarre più eclettiche e soniche dell’intero panorama nostrano (Xabier Iriondo degli Afterhours), di una sezione ritmica che picchia senza pietà (Pierpaolo Capovilla e Franz Valente de Il Teatro degli Orrori, rispettivamente a basso e batteria) e di un approccio lirico debordante per impatto verbale e fisicità (Eugene S. Robinson degli Oxbow). Uno sguardo ai maestri comuni dei quattro, questo disco, un concentrato di violenza sonora che va ben oltre il semplice tributo a una delle scene in assoluto più seminali. A pochi giorni dal via al tour italiano dei Buñuel, abbiamo discusso un po’ proprio con Pierpaolo Capovilla, artefice del progetto insieme a Valente prima del coinvolgimento degli altri.

bunuelintervista2016

Pierpaolo, cominciamo dalla nascita di quest’incontro artistico fra te e Franz da un lato e Xabier dall’altro. Chi ha cercato chi e chi aveva già in mente il da farsi?
Io e Franz avevamo in mente il progetto da un bel po’ di tempo. Avevamo un gran desiderio di suonare insieme, come ai tempi di One Dimensional Man. Francesco per un breve periodo sostituì Dario Perissutti alla batteria, poi il gruppo implose, all’improvviso, per colpa mia. Ero stressato e in crisi con me stesso. Come dire, c’era rimasto un sentimento di nostalgia per quell’esperienza. Quando ci siamo chiesti quale chitarrista sarebbe stato quello giusto, abbiamo subito pensato a Xabier.

Come mai la scelta per la voce è ricaduta su Eugene? Avete avuto subito la sua disponibilità? Non c’era nessuno, in Italia, che avrebbe potuto fare al caso vostro?
Abbiamo chiesto a Eugene di partecipare al progetto, e abbiamo fatto benissimo. Nessuno in Italia sarebbe stato all’altezza di questo interprete e poeta. I suoi testi sono sconvolgenti, perché sono veri fino in fondo. Eugene ci rispose subito, con entusiasmo, e non ti nascondo che la cosa ci sorprese.

A proposito di Eugene, avete dovuto adattare i vostri primi spunti in studio alle sue caratteristiche o il materiale andava già bene per come lo avevate messo in piedi?
Abbiamo dato a Eugene le canzoni così come le abbiamo registrate, e lui le ha cantate in un paio di giorni, anzi, di notti, presso uno studio di sua fiducia, a San Francisco. Ci spedì molteplici tracce per ogni canzone, ed io mi occupai del montaggio, facendo attenzione al testo e alle sequenze melodiche.

Per quanto riguarda le lyrics, gli avete chiesto qualcosa di specifico o l’avete lasciato totalmente libero di scrivere sui brani?
Eugene non è certo il tipo che si fa dire cosa deve scrivere e cantare! No way! Non avremmo mai osato dargli alcuna indicazione, e comunque eravamo certissimi che avrebbe fatto un gran lavoro. Ha scritto e cantato ciò che voleva. Quando lessi i testi per la prima volta, rimasi a bocca aperta. Mi chiesi “ma che diavolo c’ha dentro quest’uomo?”. Per come la vedo io, penso che Eugene sia un poeta. So bene che è una parola grossa, ché la poesia è una cosa seria, ma penso davvero che il demone della poesia abiti la sua mente e il suo cuore. Nella sua lirica scorgo Lautréamont, un certo Artaud e fors’anche Rimbaud.

Scendendo nel dettaglio della sezione ritmica, che ti riguarda da vicino, questo tuo ritorno al basso quanto ha in comune con l’esperienza One Dimensional Man?
Credo, e spero, sia la sua continuazione ed evoluzione. Non vedevo l’ora di ritornare allo strumento, ne sentivo il bisogno, come qualcosa di necessario.

La vostra musica ha qualcosa in comune, dal punto di vista delle immagini e concettuale, col regista spagnolo che vi ha dato il nome?
Volevamo chiamarci “Los Olvidados”, ma Eugene ci fece notare che a San Francisco c’era già una band con quel nome, con qualche disco all’attivo. “Los Olvidados” (letteralmente “I Dimenticati”, ma il titolo italiano era “I Figli della Violenza”) è un film di Buñuel del 1950 e fa parte della sua produzione “realista”. Vinse il Festival di Cannes nel ’51 ed è stato inserito dall’UNESCO nell’Elenco delle Memorie del Mondo. Narra di bambini disperati, affamati, lasciati a se stessi. Uno dei più bei film che abbia mai visto.

Butto lì un paio di nomi che ritrovo nel disco: Big Black e Jesus Lizard. Che mi dici, cos’altro c’era nel vostro calderone mentre incidevate?
Big Black e Jesus Lizard sono parte della mia e nostra formazione artistica, due band ineludibili, che hanno segnato il rock americano come poche altre. Ma è tutta la scena hardcore americana che ci ha ispirati, quella di Touch and Go, Homestead, Amphetamine Reptile, SST, per capirci.

A me il disco è piaciuto moltissimo, sono anch’io della “vecchia scuola”… ma avevate calcolato il rischio di risultare un po’ anacronistici proponendo oggi post hardcore?
Per dirla con Agamben, per essere davvero contemporanei, è necessario essere anacronistici. Agamben scriveva che «è davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». E comunque, io amo l’hardcore, così come tutti noi. L’importante è fare ciò che si ama. Il giudizio del pubblico e della critica non è così importante, anzi, forse non lo è affatto. Quando ciò che fai è autentico e genuino, tutto il resto passa in secondo piano.

State per intraprendere il tour italiano, ma saprete benissimo come la vostra musica potrebbe avere grande presa all’estero. Progetti al riguardo?
Me lo auguro vivamente. Mi auguro che questa prima tournée possa essere l’inizio di una lunga avventura.

Che idee avete per il futuro, Buñuel resterà un progetto “one shot” o c’è la voglia di proseguire?
Stiamo già pensando di pianificare una tournée europea, appena avremo chiara la situazione complessiva. Siamo tutti impegnati nei nostri gruppi originari. Gli Oxbow stanno per pubblicare il nuovo album, Xabier è un artista vulcanico e segue più progetti, Afterhours hanno un nuovo disco, imminente. Io e Franz abbiamo Il Teatro degli Orrori, ed io personalmente anche un progetto meta-teatrale imperniato sui versi di Antonin Artaud. Non sarà semplice, ma ci proveremo, questo è sicuro.