Home INTERVISTE Cesare Basile – “Hellequin, il principe dei morti in battaglia”

Cesare Basile – “Hellequin, il principe dei morti in battaglia”

05-09-06: Capello lungo, barba incolta e bicchiere sempre stretto in mano. Non è cambiato per nulla Cesare Basile con il passaggio a Milano. Un trasferimento probabilmente necessario per raggiungere quella maturità artistica ed espressiva che straripa in un lavoro magnifico qual è “Hellequin Song”, ultimo disco del cantautore catanese. Il Cibicida lo ha intervistato per i suoi lettori in occasione di un concerto interamente unplugged sul palco dei Mercati Generali di Catania. Insomma, un momentaneo ritorno a casa per Basile.

Domanda: Sono ormai un paio d’anni che hai lasciato Catania per trasferirti a Milano. A noi catanesi manca un po’ il vederti giro, magari mentre bevi una birra durante un concerto. Com’è stato il passaggio a Milano? Una città grande, frenetica…
Cesare: Mah, non mi sembra che Catania sia molto più rilassata, comunque. Certo Milano è più grande, però credo che la frenesia abbia colpito pure la nostra città. Magari non la vediamo, magari non è una frenesia fisica, però sai, a me non piace parlare di Catania perchè è una città che amo follemente e con la quale ho un rapporto difficile. La verità è che mi fa incazzare per tantissime cose. Sono andato a Milano non perché abbia fatto una scelta di gusto, ho scelto quel posto perchè mi permette di lavorare meglio, di suonare e stare in contatto con quel poco che si fa dal punto di vista produttivo con la musica in Italia. Per cui, cosa dire, mi sono ambientato a Milano. Sì mi trovo bene perché, alla fine, credo sia molto simile a Catania, soprattutto nelle pieghe più nascoste. Dai, basta così. A me le domande su Catania mi imbarazzano sempre perchè ad un certo punto ho paura di iniziare a vomitare tanta merda e non mi piace farlo, anche se essendo catanese posso farlo, cioè, ho il diritto di farlo. Quando qualcuno ne parla male e non appartiene a questo posto, m’incazzo, però quando sono io ad inveirvi contro, probabilmente, mi sento assolto. Io credo che Catania, come al solito, abbia una forte presenza di energie che hanno voglia di fare, raccontare, e che in qualche modo non vengono mai fuori. Perchè non riescano a farlo non spetta a me dirlo, però credo che ognuno di noi dovrebbe farsi questa domanda. Credo che la città ultimamente soffra di quella specie di sonno che Tomasi di Lampedusa diceva per i siciliani era simile alla morte. Forse ne stiamo approfittando di questo sonno…

Domanda: A questo punto la domanda è davvero spontanea. Credi che fuori da Catania hai avuto più considerazione dal punto di vista artistico?
Cesare: No, non credo a questa cosa dell’essere valutato di più da altre parti. Non voglio fare questo tipo di discorso, non mi interessa. Quello che io probabilmente ho ricevuto rispetto ad altre parti è la possibilità di muovermi meglio, quello sicuramente. La possibilità, quindi, di avere a che fare di più con la mia casa discografica (la Mescal, ndr) che, essendo di Nizza Monferrato, era molto lontana da qui. Col trasferimento ho potuto, diciamo così, controllare meglio il mio lavoro e quello che veniva fatto sul mio lavoro. Catania, comunque, al di la di tutto, per me resta un posto importante dove venire. Io scrivo molto a Catania, ogni volta che devo fare un disco nuovo.

Domanda: Dove hai pescato la leggenda di Hellequin?
Cesare: L’ho beccata su un fumetto. Un fumetto di Dampir della Bonelli Editore. Su questa striscia, che mi pare si intitolava la “Colonna Infernale”, si accennava al mito di Hellequin. Mi ha incuriosito molto e mi sembrava un ottimo spunto per una canzone. Sì, mi sembrava interessante parlare della guerra da parte di quelli che la guerra l’hanno subita come militari. Una canzone che, come ho sempre detto, non è una canzone pacifista. Io sono un amante della pace, ma non sono un pacifista. Sono uno che è convinto che l’amore risolva di più della violenza, ma non sono un pacifista. E credo che raccontare di soldati che da morti non riuscivano a liberarsi era una cosa importante, soprattutto ora che la guerra è vicino a casa nostra.

Domanda: E invece come avviene il passaggio da Hellequin, il demone, ad Arlecchino, buffone tragicomico?
Cesare: Potrei dire una cosa provocatoria… credo che dal punto di vista della evoluzione del personaggio le leggende personali hanno dirottato il principe dei morti legato ai caduti in battaglia, alle divise che cucite insieme definiscono il personaggio di Arlecchino. Arlecchino da personaggio tragico diventa personaggio comico nella commedia dell’arte. E’ un po’ questa la spiegazione filologica della cosa.

Domanda: …ma perché un demone diventa un buffone?
Cesare: Ma perchè forse un demone è un buffone. Perchè forse un demone è uno che si assume tante responsabilità anche quando è un demone cattivo e malvagio. E chi si assume responsabilità poi in questo mondo finisce per essere considerato un buffone.

Domanda: “Hellequin Song” è una sorta di catalogo degli sconfitti. Una volta leggevo che dicevi che lo sconfitto è uno che ha lottato, che ci ha provato. Nella tua carriera hai trattato più volte la cristologia, ad esempio in “Gran Calavera Elettrica”. Ma Cristo si può considerare uno sconfitto?
Cesare: Cristo è uno sconfitto? Questa è una bella domanda, no non credo lo sia. Cristo è uno che ha tramutato la sconfitta sulla croce, in vittoria. Gli sconfitti in qualche modo tramutano il loro fallimento in vittoria, solo che la loro vittoria non è propagandata. Cristo ha trasformato la sua sconfitta umana e fisica in vittoria e la croce è il simbolo di questa vittoria perchè in qualche modo grazie a questa sconfitta ha raccontato agli altri che l’amore ha un senso. Se dalla sconfitta di Cristo si matura la partecipazione alla sofferenza degli altri è un gran bella conquista.

Domanda: In un verso di “Finito Questo” dici: “Ho un peccato di paura che si fa beffa di me”. Quali sono le paure che non riesci proprio a domare ed i peccati di cui non puoi fare a meno?
Cesare: Mah, i peccati sono tanti. Nel verso specifico mi riferivo alla morte, che è una cosa che mi fa spavento e per questo ne parlo. E mi rifiuto di nasconderla come fa la società quotidianamente. Non credo che il problema sia allungare la vita alle persone, ma piuttosto fare capire a quelle persone quanto sia importante viverla questa vita. Allungare la vita delle persone per farle lavorare fino a 80anni, non è una cosa bellissima. Allungare la vita alle persone per farle vivere una vita di merda non è una cosa bellissima. Credo che è importante capire che la vita non promette, non nega niente, ma che ognuno di noi deve avere il tempo, lo spazio, il modo di farla al meglio.

Domanda: Che razza di lavoro è quello del musicista?
Cesare: Io non lavoro perchè non sono alle dipendenze di nessuno e non vado in vacanza. Che lavoro faccio? Scrivo canzoni. Fondamentalmente faccio la mia vita, se ogni tanto mi pagano per fare questo, va bene. Comunque lo farei ogni caso.

Domanda: C’è un pezzo in Hellequin dove canti “usa tutto l’amore che porto”. Quanto amore dai alla musica che poi ricevi in cambio?
Cesare: Dalla musica ne ricevo molto. Bisogna capire, poi, se parli di quello che scrivo, che compongo sulla chitarra e dalla musica che viene dalle mie braccia. Da queste cose ricevo ottime soddisfazioni e molto amore. Sono molto esigente rispetto alle canzoni tanto quanto queste lo sono con me. Poi se invece parliamo della musica come mondo, della musica come industria, della musica italiana, allora lì il discorso cambia. Però non credo che a 42 anni mi possa ancora permettere di chiedermi se ciò mi ha dato o mi da tanto. Questo è quello che ho scelto di fare e punto.

Domanda: Qual è il tuo rapporto con la scrittura?
Cesare: Che quando insisto troppo, senza riuscire a scrivere niente di buono, mi fermo a bere una birra ed aspetto. Io credo che le canzoni vengano da sé, fanno tutto loro, decidano loro. Sono profondamente convinto che le canzoni siano un po’ come quegli spiriti che ti vengono a rompere le balle la mattina presto.

Domanda: A proposito di scrittura, Manuel Agnelli, tuo grande amico, ha scritto un libro; Mimì Clementi più di uno. Quando arriverà il tuo turno?
Cesare: Non necessariamente chi scrive canzoni deve scrivere un libro. Se uno ha buone idee per un libro lo butta giù. Io scrivo racconti, poesie, canzoni, ma con l’altro lato della scrittura, quella narrativa, ho sempre avuto un rapporto molto rispettoso. Per cui non voglio essere un cantante che scrive libri. Se un giorno diventerò uno scrittore, scriverò.

Domanda: Nell’ultimo album ci sono parecchi pezzi in inglese molto vicini alle sonorità blues di Tom Waits, Mark Lanegan e le Desert Sessions. Cos’è per te la musica americana?
Cesare: Cesare Basile senza la musica americana non esisterebbe, o almeno una certa parte musicale di Cesare Basile non esisterebbe.

Domanda: Schiavo o figlio della musica americana?
Cesare: Schiavo o figlio… beh, Muddy Waters era uno schiavo, ma è stato il padre del blues. Per cui non è importante…

Domanda: Che persona è Manuel Agnelli giù dal palco?
Cesare: Manuel è innanzitutto un amico. Io credo che l’unica cosa che possa descriverlo è che è un uomo d’onore. Non nell’accezione siciliana (ridiamo), è un uomo che ha una grande dignità e che ha molto rispetto per gli altri. Così io l’ho conosciuto, così lo conosco, così ne parlo.

Domanda: Invece, sorridevo leggendo John Parish che scriveva quanto è strano suonare a Catania. Tra una sessione ed un’altra si mangiano olive, si strimpella, si scherza…
Cesare: Non so se Parish è cambiato venendo a Catania, sicuramente ha conosciuto un altro mondo. Io credo che la cosa più bella che sia successa durante la mia collaborazione con John è il fatto che lui abbia scoperto che in Italia si fanno cose diverse da quelle internazionalmente conosciute. Che poi abbia scoperto che durante le session facciamo un barbecue va bene pure.

Domanda: Domanda di rito: se ti dico Cibicida cosa ti viene in mente?
Cesare: Beh… potrebbe essere qualcuno che odia le cotolette di mia madre (ridiamo)…

* Foto a cura di Emanuele Brunetto
* Supporto a cura di Emanuele Brunetto e Giorgio Pennisi

A cura di Riccardo Marra