Home INTERVISTE Ministri – “La battaglia sulle parole è la più importante”

Ministri – “La battaglia sulle parole è la più importante”

04-09-09: I Ministri, difficile negarlo, sono decisamente un fiume in piena. Lo dimostrano sulla carta, con due dischi (più un ep) all’attivo ed una serie infinita di date in giro per l’Italia. Lo dimostrano sul palco, divertendosi e divertendo. Lo dimostrano ai nostri microfoni, nel corso di una lunga, lunghissima chiacchierata. Ecco cosa ci ha raccontato Federico Dragogna, chitarra e seconda voce della band, al termine della performance tenutasi al Barbarabeach di Catania, lo scorso 4 settembre.

Domanda: Sono “Tempi bui” per l’Italia, per il mercato discografico, per il mercato globale. Ma per la vostra carriera, questi, che tempi sono?
Federico: Guarda noi siamo arrivati a viverci di questa cosa che stiamo facendo, qualsiasi cosa sia. A volte mi sembra un pochettino di essere quasi nel medioevo e fare quelli che portavano in giro i medicinali e si fermavano col carretto a urlare “Miracolo! Miracolo!”. A noi basta viverci sinceramente, basta vedere la gente che raccoglie il messaggio, che non è un messaggio buio. Ciò che mi è piaciuto molto della ricezione del disco è stato il fatto che nonostante i testi siano cupi, alcuni sembrano anche rassegnati, vengono presi in realtà nel modo in cui li interpretiamo. La gente ai nostri concerti è attiva, agisce. E questa è la più grande ricompensa che si possa avere, in qualche modo.

Domanda: Il titolo del vostro ultimo album è un riferimento forte, un riferimento a Brecht. Come mai la scelta è ricaduta su di lui?
Federico: “Tempi bui” è quasi una continuazione di quella poesia, che si chiama “A coloro che verranno”, ed è bellissima. Rispecchia perfettamente il nostro tipo di atteggiamento, ovvero “scusateci, noi non potremo essere gentili, saranno quelli dopo di noi ad avere una forma e un messaggio giusti, belli e non incazzati”. Noi siamo ancora in un periodo in cui abbiamo bisogno di essere così, di salire sul palco e di fare anche tanto casino. La continuazione rispetto a Brecht sta nel fatto che lui aveva scritto in momenti di totalitarismi forti, noi scriviamo in momenti di totalitarismi deboli. Il meccanismo dei totalitarismi di oggi è stato molto furbo nel conquistarsi delle parti di linguaggio, ad esempio la questione della libertà. La parola “libertà”, che quando io ero piccolino era una parola pesante, una parola piena di significati, di riferimenti, ancora forte e ancora scomoda, dopo è stata stuprata, prostituita. Oggi la libertà è di tutti, è del popolo delle libertà, ed è una libertà che ha le mani talmente larghe da non avere più un senso. Quando nel pezzo diciamo “i tedeschi sono andati via, come faremo ora a liberarci?”, è quello il punto. In questa situazione di totalitarismo, determinata dalla mancanza di un nemico reale, il punto è proprio se qualcuno ti viene a dire “quale libertà ti viene negata?”. E’ difficile rispondere, perché sei stato messo prima in scacco. A me non interessa la libertà di farmi le canne, per quanto la vorrei, mi sembra davvero il minimo. Ma è una battaglia talmente piccola tra le altre… bisogna affrontare prima la battaglia sulle parole, che mi sembra più importante della battaglia sulle singole libertà.

Domanda: A proposito di libertà e parole, “Tempi bui” esce nell’anno di un importante esperimento per la musica italiana, quello de “Il Paese è reale”, col quale condivide, in un certo senso, l’attenzione per il sociale. Tocca alla musica, in Italia, fotografare la situazione del Paese, diffonderla tra la gente?
Federico: Riferito alla singola iniziativa, la cosa che non mi fa impazzire se te la devo dire tutta è l’idea del contenitore, il contenitore non ci piace. Ci piace lo scambio, abbiamo uno scambio molto fitto con parecchi artisti italiani usciti nel nostro stesso momento, Dente, Vasco Brondi… Ecco, il confronto con loro è un confronto molto stimolante, ma mi piacerebbe rimanesse in una categoria di sfida per migliorarci tutti tra di noi, ricordando che per ora le grandi cose che ha fatto l’Italia musicalmente sono sempre state major, tutto sommato. Se io vado a pensare a grandi cose italiane penso a Dalla, penso a De André, penso a Battiato. Non riesco ancora a pensare alla realtà nostra, indipendente, anche se noi ora non lo siamo più perché siamo Universal. Non mi piace neanche la parola indipendente, rientra nel discorso sulle parole che ti facevo prima. Per cui penso che il grande compito sia quello di ampliare l’audience, di arrivare a parlare alla gente, alla cassiera del supermercato, a quello che il giorno dopo va a lavorare, all’universitario che non sa cosa fare, portare avanti un livello di linguaggio che giunga alla creazione di qualcosa. Non penso sinceramente che questo possa accadere con i contenitori, perché i contenitori come “Il Paese è reale” e molti altri, non so, i concerti per l’Abruzzo, hanno di contro il fatto di dover essere necessariamente entusiastici. I contenitori hanno qualcosa del linguaggio politico, sono basati sull’entusiasmo, come quando ti parla una major che è sempre o entusiasta oppure delusa. Non c’è un “va bene così”, c’è sempre un “Aaaah” (urla ed agita le braccia, ndr), e in questo senso non mi piacciono quelle cose lì, tutto qua.

Domanda: Hai citato Universal e Vasco Brondi, che poche settimane fa ci ha detto “si è indipendenti più per sfiga che per scelta.” Adesso che siete sotto contratto con una major, ti chiedo, eravate indipendenti per sfiga o per scelta?
Federico: Eravamo indipendenti per sfiga, assolutamente. E mentre eravamo indipendenti abbiamo incontrato un sacco di sfigati, tantissimi, nel mondo della musica indipendente c’è tanta, troppa sfiga. Noi siamo stati chiamati quasi subito da una major con cui abbiamo lottato tantissimo per avere le cose come le volevamo noi, ed è andata bene. Paradossalmente nello stesso periodo la nostra major aveva corteggiato anche Vasco, però penso che ci sia una componente molto diversa. Noi facciamo rock e il rock non può prescindere – e questo è il problema di molto rock italiano – dallo spettacolo. Il grande rock per me è sempre stato major, dai Rage Against The Machine a David Bowie. Il rock può permettersi di essere indipendente soltanto in paesi molto grossi, dove la sezione indipendente è grossa anche lei, quindi in America o in Inghilterra. Altrimenti non può andare, perché a un certo punto senti che manca qualcosa. In questo senso Vasco non ne ha bisogno, lui ha una voce, una chitarra e i suoi testi ed è perfetto così. Per noi, invece, era un passaggio fondamentale.

Domanda: E il risultato, alla fine dei conti, non vi ha penalizzato…
Federico: Assolutamente. E’ una roba un pochino vecchia quella major-indipendente. Noi abbiamo un pubblico che non se l’è mai neanche chiesto questo, non abbiamo mai avuto – anche quando siamo passati da una cosa all’altra – nessuno che ci abbia chiesto perché. Noi continuiamo ad essere noi, la prima data di questo tour è stata in piazza, a Milano, in un concerto assolutamente abusivo davanti ai carabinieri, perché era stato sgombrato un centro sociale milanese che era un punto importante della libertà cittadina, il Conchetta. Quindi, non solo il primo concerto, ma il concerto di inaugurazione di un tour con una major – che in teoria sarebbe dovuto essere qualcosa di incredibile – è stato in piazza con due amplificatori di merda, che si sentivano di merda, ma è stato bellissimo. La storia della major che tocca i contenuti è una gran cazzata. Nessuno ci ha mai toccato niente, c’è un grande rispetto da parte loro, ci sono grandi litigate ma su altre cose, mai sui testi, non hanno mai manco spostato una virgola.

Domanda: Avete una specie di fissazione con gli intermezzi, quelli di “Tempi bui” risaltano particolarmente…
Federico: Ti dirò, noi in studio ci divertiamo come dei coglioni in generale. L’idea di lasciare dei secondi di silenzio tra un pezzo e l’altro, sai, mi sembra un po’ triste. Ti viene da dire: “ma lì c’è uno spazio in mezzo, facciamoci qualcosa!”. Forse è perché io son cresciuto col progressive, coi King Crimson, con album che sono dei grossi blocconi di roba. C’è anche un sacco di gente che compra il disco ai concerti, perché comunque se ti scarichi i pezzi dalla rete gli intermezzi non ti tornano, perché sono sempre in coda a uno quindi non senti l’attacco dell’altro. Se ti vuoi ascoltare bene “Tempi bui” lo devi ascoltare su disco, tutto intero. Anche il terzo album sicuramente avrà questa cosa.

Domanda: Quest’inverno vi siete confrontati con alcuni concerti in acustico, che hanno riscosso un grande seguito. Per di più avete composto una vera e propria ballata, “Ballata del lavoro interinale”. Cos’è, ci state prendendo gusto?
Federico: L’acustico è una gran cosa. L’acustico vorrebbe dire che, ad esempio, io al momento avrei molta più voce e non sarei così sudato. Ti permette di far passare i testi in una maniera diversa. Secondo me, il punto più alto che può raggiungere una band come la nostra è saper passare da una dinamica all’altra in una maniera bella e convincente. Noi per ora ogni tanto facciamo anche delle cose carine in acustico, però non siamo proprio delle primizie, quello che sappiamo fare è picchiare tantissimo. Il mio riferimento in questo senso è sempre Nick Cave, nel senso che per me è un grandissimo modello, un esempio, specie dal vivo, i suoi pezzi pian piano crescono e poi esplodono. Però suonare piano è difficilissimo, questa è una cosa che molta gente dovrebbe imparare. Molti dei nostri ascolti oggi sono proprio suonati piano, i Karate per esempio. E quello è un punto d’arrivo, però noi suoniamo in acustico per necessità, in posti dove non ci è permesso fare l’elettrico, e ci piace, impariamo un sacco di cose, ma non abbiamo la pretesa di essere un gruppo acustico perché non siamo abbastanza bravi, molto semplicemente. Dobbiamo imparare a suonar meglio e questa, riferita secondo me anche alla scena italiana, è una cosa molto importante. La scena italiana tutta dovrebbe imparare a suonar bene e un sacco di gente se lo dimentica, un po’ perché parte della scena italiana è dominata da un’estetica punk per la quale non importa come si suona. No, non è vero, è una gran cazzata! La musica è un linguaggio, impariamolo ed usiamolo, e dopo se ne parla.

Domanda: Nel booklet de “I soldi sono finiti” era presente il vostro business plan. Siete riusciti, poi, a pareggiare i conti?
Federico: No, semplicemente perché abbiamo stampato meno copie del dovuto! Il rientro era sulle seimila copie, noi ne abbiamo stampate duemila. Le abbiamo esaurite però. Adesso il disco è in ristampa, uscirà a novembre in vinile e in cd, sempre con l’euro in copertina. Il master è sempre lo stesso, però il booklet e la grafica saranno modificati in un maniera matta, anche se ancora dobbiamo decidere esattamente come. Faremo un tour di dodici date per promuovere sia “I soldi sono finiti” che “Tempi bui” e troveremo anche un nome che li unisce.

Domanda: Siete tra i gruppi che riescono a promuovere meglio la propria immagine, dall’euro in copertina de “I soldi sono finiti”, per l’appunto, alle locandine che pubblicate attraverso i social network, coi quali interagite costantemente. Chi di voi lavora su questo fronte, a chi vengono le idee?
Federico: Le idee vengono, soprattutto quelle grosse che riguardano il disco o le copertine, a tutti e tre ed è un parto sempre molto difficile. Poi in mezzo sono io a fare tutte le locandine. In realtà, penso che noi abbiamo trovato un modo – senza neanche faticare a trovarlo, sinceramente – molto bello di portare avanti la cosa. Nel senso che il nostro rapporto coi fan è molto colloquiale, sia prima sia dopo. Ti faccio un esempio: i nostri fan sanno che il batterista è Mighelino, che fa ridere! Tu porti avanti una band che in teoria dovrebbe essere rock, e fai chiamare il batterista da tutti Mighelino. Ti viene da pensare che ci sia qualcosa che non va, e invece non è vero! Secondo me la chiave è stata quella di rifiutare l’emulazione di un modello americano, quello del musicista preso male che non si fa vedere. L’Italia non ha bisogno di questo, ha bisogno di ritrovare un po’ di fiducia in sé stessa. Noi ci siamo fatti un gran culo, produciamo sempre tantissima roba e secondo me quella è un’altra cosa molto importante. Non sono più i tempi in cui è permesso fare un disco e poi starsene due anni in panciolle, un artista deve continuare a produrre, il suo livello dipende anche dalla quantità, non solo dalla qualità. E poi, naturalmente, la media di qualità rispetto alla quantità, è ovvio. In questo senso l’idea è sempre quella di riuscire a far sì che il pubblico sia sempre partecipe dei passi avanti che fai, e questo è possibile soltanto se sei tu ad occupartene. Facciamo tutto noi, MySpace, Facebook, produzione, copertine, locandine, tutto, non lasciamo niente a nessun altro, quindi tutti sanno che se ci scrivono siamo noi che leggiamo, non qualcun altro. E’ una fatica incredibile, perché spesso mi ritrovo a fare tutto di notte, dopo che torno da un concerto distrutto. Però vale la pena.

Domanda: Questa sera avete dedicato “Il bel canto” a Giulio Andreotti. Possiamo sapere perché?
Federico: Si scherza sempre sul palco, però in qualche modo Andreotti è un ottimo simbolo di un processo tipicamente italiano, quello secondo cui puoi fare qualsiasi porcata vuoi, ma ad un certo punto, quando diventi anziano, sei libero dalla questione etica. Non importa di chi si stia parlando, se si tratti di un buono, un cattivo, un dimenticato, un celebrato, perché si giunge alla cosiddetta “immunità parlamentare”, che è quello di cui Andreotti gode, e come lui altre persone di cui spesso sono provati fatti incredibili. Penso che questo derivi principalmente dal fatto che l’Italia sia uno stato che si sviluppa attorno alla Città del Vaticano, e il Vaticano porta da sempre avanti l’idea di una doppia verità. E la doppia verità può semplicemente consistere, ad esempio, nel fatto che leggendo una pagina di giornale, domani, potrai leggere a tutta un titolone su un’intervista a Ruini, la famiglia, la crisi, eccetera. E poi magari c’è un trafiletto in basso, che non noti neanche, che racconta come una matta credesse ci fosse Cristo in metropolitana. Sopravvive in Italia un’idea di doppia verità, cioè del fatto che comunque esista una verità in qualche modo legata alla scienza, ai tecnici, agli scienziati. E poi ce n’è un’altra di verità, che è legata alla Chiesa, ma è una verità politica. E Andreotti va avanti in questo senso, quindi ti viene a mancare il punto di contraddizione, ti manca il fatto che un personaggio del genere possa aver fatto delle cose incredibili, ma tu non puoi neanche provarle. Se tu hai un X fatto che ha una sua verità ma nessuna prova, sarà impossibile convincere la gente del contrario, anche se tu le prove le hai. E’ una questione di visibilità.

Domanda: Quando parli di visibilità, ci viene in mente “La faccia di Briatore”. Lui non vi ha ancora querelati, vero?
Federico: (Ride, ndr) No, non ancora! Spero che non lo faccia, anche se… non si può mai dire! Tra poco uscirà il video de “La faccia di Briatore”, tra una settimana o due al massimo. Nasce da una collaborazione con Medici Senza Frontiere, in particolare da una ricerca che abbiamo fatto riguardo la visibilità che hanno dato a Briatore nell’estate del 2008 rispetto a tutta una serie di crisi umanitarie nel mondo. Briatore batteva il Darfour tre a uno. Il video è un misto di filmati di Medici Senza Frontiere, cioè di quello che non viene fatto vedere per far vedere la faccia di Briatore, e di fan. All’inizio appare una frase abbastanza forte, che recita più o meno così: “ogni volta che vedi la faccia di Briatore, pensa a quello che non ti stanno facendo vedere”. Però non è una cosa che riguarda solo lui, io non ce l’ho con questa persona. E’ un pezzo sui media, sulle responsabilità loro, perché le responsabilità sono loro. Io sono stato giornalista per sei anni, ho lavorato in redazione e so bene che nel corso delle riunioni vengono decise cose come, d’accordo, adesso mettiamo Briatore. Sono decise in momenti singoli, quindi ci sono delle persone che hanno la responsabilità di tutto questo. E questa è una cosa che tutti dovrebbero sapere, non si può continuare a pensare, Briatore è famoso, cos’altro vorresti mettere altrimenti? No, non va bene. Noi vediamo tante facce di Briatore in giro perché qualcuno l’ha deciso, qualcuno, un pugno di persone.

Domanda: Ultima domanda, di rito per noi: se diciamo “Cibicida”, cosa ti viene in mente?
Federico: Quando me l’hai detto onestamente m’è venuto in mente il CBGB, il locale, ma solo per assonanza!

* Foto (con bigliettino da visita de Il Cibicida) a cura di Michele Leonardi

A cura di Michele Leonardi