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Stelle al collasso e slowcore, i Codeine e la parabola di Frigid Stars

Photo Credit: Press
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Il rock non ha regole. Anzi no, ne ha una: se c’è qualcuno da qualche parte che lo fa in un modo, ci sarà qualcun altro da qualche altra parte che ne proporrà una versione contraria. La storia è piena di “post”, di “new”, di sorpassi e reazioni, basti pensare al tiremmolla tra punk e wave o all’evaporazione dell’estetica ’80 nell’effetto serra degli anni Novanta. Anche i Codeine partirono da un opposto: se a Seattle il grunge mostrava il delirio naïf di una generazione che trasbordava insoddisfazione (e che voleva urlarla a squarciagola), loro preferivano crogiolarsi nel chiuso di un appartamento a sorseggiare caffè inquieti. Da un lato stelle infuocate lasciavano solchi di rasoio in cielo, dall’altro Stephen Immerwahr, Chris Brokaw e John Engle che, a New York, a naso in su, ad ammirare il collasso delle stelle: gelide, immobili e povere di luce.

In questo senso Frigid Stars è il compendio di tutto ciò. Le stelle frigide dei Codeine sono l’immagine scelta per rappresentare la narcolessia. I tempi della batteria di Brokaw dilatati fino a sfibrarsi, la voce pestata di Immerwahr a suggerire stati catatonici, gli arpeggi sonnolenti di Engle ultimi blandi riflessi di un corpo che s’addormenta. Se c’è un senso dell’umorismo in tutto ciò è sottilissimo ed è consegnato alla data di uscita del disco: ferragosto 1990, il giorno più estivo tra tutti. O forse non è ironia. I Codeine cercano per davvero sole per restare vivi: lo salmodia proprio Immerwahr nella epocale Pea in chiusura disco. In quella canzone i Codeine fondano la loro poetica, il verso recita: “Alcune persone sembrano essere baccelli rinsecchiti, proprio come me”. Dunque i sentimenti rimangono incastonati nella pancia, serrati da una scorza dura come buccia. Un mood rinunciatario, legato alle emozioni più intime, allacciato a un modo di sentire la musica come faccenda privata. Sono trentacinque gli anni passati da un disco così magnetico. Chris Brokaw e Stephen Immerwahr ce lo raccontano partendo dall’inizio. Proprio dall’inizio.

Chris, Steve, cosa eravate prima di “Frigid Stars”?
Brokaw: Eravamo ragazzi normali. Con Stephen ci conoscemmo all’Oberlin College; Stephen e John invece strinsero amicizia a New York. Poi, come al solito, sono le casualità a creare le opportunità. Un giorno Sooyoung Park dei Bitch Magnet mi diede una cassetta con alcuni pezzi di Stephen. Andai a New York a trovarlo e lì con Steve parlammo di tutto, della nostra passione per Nikki Sudden ad esempio.

Si stavano formando i Codeine?
Brokaw: Proprio così. Inizialmente dovevo fare il secondo chitarrista con il produttore Mike McMackin alla batteria, poi decidemmo di fare tutto in tre. Ma la storia non è finita. In quel periodo Stephen era il fonico dei Bitch Magnet e ogni sera, alla fine dello spettacolo, saliva sul palco a suonare “Pea” con loro. Nell’89, quel brano, entrò in un 12″ dei Bitch Magnet attirando l’attenzione della tedesca Glitterhouse che chiese a Stephen di ascoltare qualcos’altro. Nel Gennaio del ‘90 registrammo quattro canzoni su una pista a otto tracce nel seminterrato di McMackin a Brooklyn. La Glitterhouse le sentì e ci spinse a farne altre quattro così da poter realizzare un LP. Nel Giugno del ’90 era fatto anche il lato B. “Frigid Stars” era pronto.

Il disco trovò poi un’ennesima vita con la ripubblicazione per Sub Pop nel 1991…
Brokaw: Sì, la Glitterhouse a quel punto era diventata una specie di “Sub Pop d’Europa”, furono loro stessi che ci segnalarono all’etichetta di Seattle. A Sub Pop piacemmo, anche se inizialmente volevano da noi un suono più “grunge”. Noi rispondemmo di no, ma loro pubblicarono comunque il disco.



A proposito di questo, “Frigid Stars” arriva in pieno periodo grunge. Rispetto a loro voi rallentaste bruscamente la velocità dei suoni. Una scelta consapevole? E cos’è lo slowcore?
Immerwahr: In quel periodo sentivo tantissima roba grunge, ad esempio i Green River, però volevo qualcosa di differente per i Codeine. Così incisi il mio cantato diverso rispetto a quello istrionico dei gruppi di Seattle. Loro avevano un atteggiamento ultradrammatico e grandioso, noi invece eravamo impantanati nella piattezza della vita quotidiana. La nostra lentezza era un mezzo per esprimere un umore, non il luogo stesso del conflitto. Abbiamo sempre lottato con i tempi e con il modo di misurarli e sì, forse alle volte siamo stati troppo “lenti”, il che ha significato che i pezzi s’intensificassero a tal punto da finire per collassare.
Brokaw: Aggiungo che quello che facevamo era consapevole al cento per cento e che la lentezza era solo una minima parte della nostra musica. Sullo “slowcore”, ti assicuro, non ho idea di cosa sia. Pensa che ai tempi pensavamo fosse la musica di Swans e Melvins.

Oltre a voi, in altri gruppi trionfò la lentezza. Vedi Slint e Red House Painters. Solo un caso?
Brokaw: Siamo contemporanei agli Slint, però prima della pubblicazione del nostro e del loro primo disco non ci conoscevamo affatto. Credo che “Spiderland” sia un disco incredibile ma totalmente distante da noi. Mark Kozelek invece ci inviava spesso delle musicassette, mi piaceva un sacco la loro musica, ma anche in quel caso non credo possa associarsi a quella dei Codeine.

Torniamo a “Frigid Stars”: parliamo del titolo.
Brokaw: Venne scelto da Stephen, deriva da un verso di una canzone dei The Fall. Mi pare che il testo dicesse: “Siamo stelle frigide, non puoi scoparci”. Il nostro album era così gelido che questo titolo ci sembrò perfetto.

E la copertina?
Immerwahr: Andai alla biblioteca pubblica di New York e consultai alcune immagini di stelle. Di queste feci degli ingrandimenti in negativo durante un laboratorio di grafica e poi, con John, le lavorammo in un collage usando del correttore bianco.
Brokaw: E poi c’è anche la back cover che è una foto di John. Viene ritratto qualcuno che non può o non vuole alzarsi dal letto, credo che il lettore possa arrivare alle sue conclusioni da solo.

Perché tutta questa tristezza?
Brokaw: E perché no?



Secondo voi qual è il punto di forza del disco?
Brokaw: Beh, in Cave-In ci sono diverse pause improvvise. Sulla prima, nel secondo coro, c’è un mio rapido feedback di chitarra che doveva obbligatoriamente stagliarsi lì. Ricordo che dissi a John e Steve quanto fosse fondamentale che quel feedback fosse lì e non altrove. Ecco, siamo stati molto orientati al dettaglio, abbiamo discusso delle diverse parti dei pezzi all’infinito, in modo quasi scientifico. “Frigid Stars” è un disco con un’impostazione molto specifica e poco istintiva sugli arrangiamenti. Questo è il punto di forza.

Aneddoti dell’epoca?
Immerwahr: Divertente fu quella volta durante la registrazione di Old Things nel seminterrato di McMackin. John stava sistemando la sua chitarra, s’era chiuso nella stanza della caldaia, io e Chris eravamo fuori, ridendo, sentendolo combattere per settare la sua maledetta chitarra elettrica. John, con quel “rumore” mi faceva morire dal ridere.
Brokaw: Io invece ricordo il nostro primo tour. Nei manifesti c’era scritto “Codeine from Sub Pop”, alcune persone vennero sperando di ascoltare roba à la Mudhoney. Trovarono qualcosa di diverso!

Cosa pensate dell’album oggi?
Immerwahr: McMackin ha fatto un gran lavoro. Anche se rinchiusi in un seminterrato con un vecchio mixer a otto canali, riuscì a tirare fuori suoni grezzi ma buoni. L’unico rammarico è che l’album avrebbe potuto avere una maggiore gamma di suoni, questo fu il prezzo della nostra rigidità dell’epoca.
Brokaw: Sono orgoglioso di “Frigid Stars”, le canzoni di Stephen sono incredibili, uniche. Ho imparato molto suonandolo, il modo di approcciarci a quegli arrangiamenti fu illuminante.

(Intervista realizzata in occasione del ventennale di “Frigid Stars”)