Home INTERVISTE Steve Albini: «La nostalgia è come il veleno»

Steve Albini: «La nostalgia è come il veleno»

Photo Credit: Fotogramma da YouTube
Photo Credit: Fotogramma da YouTube

Quando si parla di Steve Albini mai cadere nell’errore della temporalità. È lui stesso a fregarci: con quella faccia identica da sempre, quei capelli disordinati, gli occhialini tondi e una smorfia buffa. E poi, in grandangolo, i jeans bucati al ginocchio e t-shirt rigorosamente scure con camicione di lana a sovrastarle, oppure una di quelle sue tutone da meccanico. Steve è una specie di archetipo del rock. Ieri come oggi. Cristallizzato così: a trent’anni quando registrò “In Utero” con i Nirvana e oggi in questo 2022, anno che lo porterà nel club dei sessanta. Steve è il rock’n’roll, è la sua essenza. E le essenze mica cambiano con l’età. E sì che la sua carta di identità potrebbe raccontarne tante di essenze. Steve guru del suono. Steve urla e muscoli degli Shellac. Steve l’hardcore, il noise, il senso della tensione, quello piccante dell’elettricità. Steve ironico e sfottente. Steve giocatore di poker di alto livello. Steve che però non bluffa sul COVID perché il mondo, il suo mondo, quello del sudore mescolato al vapore delle pelli e allo stridere del nylon delle corde di chitarra; quello degli spinotti, della musica, dei cavi e della polvere aggomitolata sui tappeti del suo Electrical Audio di Belmont Avenue a Chicago, ecco, quel mondo lì è stato spazzato via dalla pandemia. Non esistono surrogati a quel mondo, non esistono scariche elettriche fatte in laboratorio. I dischi da registrare, i concerti live, le relazioni interpersonali, non conoscono rimpiazzi credibili. E ci abbiamo provato, credeteci sulla parola, ci abbiamo provato a evitare di parlarne, ma poi il tema del virus si è riproposto puntuale come muschio sui balconi dopo la pioggia. E allora siamo partiti da qui. Dalla consapevolezza della crisi. E da una domanda:

Steve, cosa ti ha insegnato la pandemia?
Ho sofferto come chiunque altro, ma soprattutto sono rimasto deluso dalla reazione di alcuni miei coetanei che ancora oggi pensano che il vero problema della pandemia sia cambiare i nostri comportamenti per stare al sicuro, piuttosto che la pandemia stessa e quanto questa vada fermata al più presto. Questo periodo mi ha mostrato come l’egoismo possa accentuarsi in un momento di difficoltà. Mi riferisco a quelli che sono passati da frasi come “il COVID non è un grosso problema, abbiamo davvero bisogno di questi sistemi di sicurezza?”, passando per “il virus uccide persone che sarebbero comunque morte” e infine “sono stufo, il problema non c’è più”. Un pensiero tossico che mette in pericolo tutti e che non pensavo avrebbe coinvolto così tante persone.

Hai citato i tuoi coetanei. Stringendo il campo, invece, cosa mi dici dei tuoi concittadini? Come ha reagito Chicago al virus?
La gente di Chicago è stata generalmente molto collaborativa per quel che riguarda l’uso di mascherine e distanziamento. Fortunatamente non abbiamo un governatore o una legislatura repubblicana quindi, ad esempio, il mio studio di registrazione, l’Electrical Audio, ha potuto implementare i requisiti di sicurezza imponendo mascherine e vaccini per partecipare alle session. Questo ha permesso di portare a termine alcune registrazioni. Certo, qualche resistenza ostinata c’è stata e il governo della città di Chicago non è stato sempre reattivo in alcuni casi. Ma altrove è peggio, molto peggio, quindi non posso lamentarmi.

Dicevi dell’Electrical Audio: come hai dovuto rimodellare il tuo lavoro di ingegnere del suono e produttore?
È stato un periodo che ci ha messo alla prova. All’inizio si viaggiava ed è stato molto complicato e insicuro. Poi ho iniziato a fare un mucchio di registrazioni da remoto lavorando su mix senza la presenza della band. Ok, sì, ci siamo visti su Zoom, ma è un lavoro molto lento e che mina il miglioramento della musica. Diciamoci le cose come stanno, lavorare in presenza nel nostro campo è tutto: ci si parla in tempo reale, nella stessa stanza. Ma tant’è. La musica è cambiata perché sempre più persone sono state costrette a lavorare da casa e quindi si sono visti boom di incisioni “da solista” che ha portato a molte one man band, e collaborazioni per corrispondenza, con registrazioni inviate avanti e indietro. Questo genere di lavori però non contemplano i professionisti del settore e quindi gli studi hanno faticato parecchio.



Sempre riguardo ai mutamenti, Thom Yorke con il nuovo progetto The Smile ha deciso di schedulare una serie di concerti in streaming a pagamento, quasi un tour. Pensi sia un destino inevitabile quello dello streaming, o sia solo legato alla pandemia?
Beh, sembra più una “soluzione COVID” sinceramente, che potrebbe portare a una piccola opportunità per espandere il concetto una volta che la pandemia sarà finita. Però a essere onesti mi pare una soluzione inconsistente per sostituire del tutto i concerti, soprattutto quando ci sarà di nuovo la possibilità di seguirli dal vivo. Sì, certo, l’occasione di un’esperienza interattiva e in tempo reale è già realtà ma, a parte le persone inchiodate ai social, non l’ho vista manifestarsi in modo significativo.

Però la situazione dei concerti inizia a diventare insostenibile, non credi?
Sì, in America la musica sta provando a muoversi ma, come tutte le cose paralizzate dal coronavirus, sta faticando tremendamente. I concerti sono più rari, i tour vengono spesso cancellati, niente sembra stabile e affidabile. Ci sarà di certo un adeguamento alla situazione, molto probabilmente i prezzi dei biglietti aumenteranno per coprire il rischio di cancellazione e costi di mitigazione, e si organizzeranno eventi pop-up più spontanei, come feste in casa ad hoc, piuttosto che grandi concerti da arena.

Proviamo a non parlare più di COVID. Idles, Fontaines D.C., Black Country, New Road. Viene dalla Gran Bretagna la wave più interessante del momento?
Quelle che citi sono tutte band apprezzabili con riferimenti, anche se solo accennati, a precedenti incarnazioni di “mentalità indipendente” dalla fine di Jason Molina e Mclusky, e altri eco tipo band punk incazzate degli anni ’80. Vorrei chiarire: non sono una persona nostalgica per natura, è bello però vedere l’estetica che ha attirato la mia attenzione da giovane risuonare in un’altra generazione. Spero che questo non si codifichi in una tendenza o in un movimento specifico, anche se accade molto meno ora che la stampa musicale non ha più molta influenza nel Regno Unito. Quelli mettevano sempre una data di scadenza a qualsiasi cosa.



Ma esistono ancora le scene? Una volta New York, Los Angeles, la tua Chicago avevano un suono riconoscibile. Quasi “geografico”, passami il termine.
Sì, certo che esistono. Qualsiasi gruppo sociale si identifica in una colonna sonora, qualsiasi idea musicale trova destinazione in più di una persona. Ciò che è cambiato è la natura delle scene: ora sono più ideologiche e meno geografiche, come dici tu. Basta guardarsi attorno e puoi trovare ovunque quella che io definisco identità “autodeterminata”, condivisa da persone che non si sono mai incontrate ma che si sono scambiate musica, storie e sono diventate amiche a distanza. Esiste ancora un’identità culturale nell’ambiente della musica dal vivo in ogni città, ma è un residuo o, specificatamente, un residuo del tempo prima del COVID. Una volta che la pandemia si risolverà, mi aspetto che l’identità locale svolga di nuovo un ruolo importante.

A proposito di identità, qualche settimana fa ti sei ritrovato in una diatriba su Twitter. La storia è questa: Max Collins degli Eve 6 ha twittato a favore dei Counting Crows dicendo che la loro sfortuna fu di avere a che fare con l’estetica “cool” degli anni ’90 che li ha fatti passare per fragili ed emotivi. Tu hai risposto che il problema dei CC è che erano spazzatura e che in quegli anni, invece, ci sono state vere grandi band fragili ed emotive.
Beh, ho solo reagito all’idea di chi sosteneva che l’apertura emotiva o la vulnerabilità fossero punite dalla critica o dal pubblico negli anni ’90.

Nella playlist, che hai twittato per dimostrare la tua tesi, c’erano Palace Music, Slint, Uzeda, The Breeders, Honor Role, Neurosis, Nina Nastasia e altri.
Io dico che c’è musica emotiva in tutte le epoche e che gli anni ’90 non erano diversi dalle altre epoche in questo senso.



Prima hai detto che non sei una persona nostalgica. Ma ti capita spesso comunque di analizzare le cose del passato?
Alle volte mi fermo a pensare a ciò che mi sono perso per strada, quello sì, ma non è per forza un flashback piacevole. Ad esempio ricordo facilmente qualche orrore anacronistico o qualcosa di terribile che però era unico a quell’epoca, ma anche ciò che mi pareva nuovo e meraviglioso e mi faceva sognare. La nostalgia eccessiva è come il veleno: rende le persone cieche alle cose belle che hanno intorno. Raramente mi concedo di pensare al passato e, quando lo faccio, trovo qualche fantasma, lì, a ricordarmi che non dovrei farlo.

Oggi in Italia l’hip hop ha monopolizzato buona parte del mercato musicale, finendo per ibridare anche il rock. Ci sono meno ragazzi con la chitarra e più cantanti rap. Succede lo stesso in America e pensi sia solo una tendenza temporanea?
A casa durante un lockdown è molto più facile e conveniente creare ritmi su un laptop piuttosto che installare apparecchiature per quattro persone e provare con la band. Penso che abbia molto a che fare con le stranezze stilistiche di questo periodo così diverso. Indipendentemente da ciò che preferiresti fare, farai ciò che è possibile e, nel tempo, i tuoi gusti si adatteranno a ciò che è possibile. Qualcosa di simile è accaduto durante il proibizionismo negli Stati Uniti, quando gli alcolici di scarsa qualità furono mascherati in bevande miste per nascondere il sapore di alcol, producendo di fatto la cultura del consumo di cocktail che persiste ancora oggi. Allo stesso modo durante la Seconda Guerra Mondiale: il cibo era razionato e le persone dovevano realizzare ricette ingegnose con ingredienti limitati per sostituire la normale cucina. Ora puoi trovare immondizia ovunque e le persone ne sono appassionate.

Parliamo un po’ di te. Lo so che ti è stato chiesto un milione di volte, ma concedimi questa possibilità: qual è il miglior album che hai registrato?
Non ho una risposta per te e, credimi, non sto schivando la tua domanda. È che semplicemente non ragiono in questo modo classificando il mio lavoro o cose così. Preferisco pensare all’intero mio mandato in musica come a un unico arco e qualsiasi punto lungo il percorso, qualunque sia il suo fascino, è preceduto e seguito da un altro punto altrettanto interessante. Onestamente tendo a pensare alle relazioni che ho formato durante il lavoro come più importanti dei dischi, e scambierei volentieri tutti i dischi con il silenzio se potessi ancora avere certe amicizie di quegli anni.

Nel 1993 scrivesti “The Problem With The Music”, un’invettiva su industria discografica e potere. Ti chiedo: politica e indipendenza sono ancora parole chiave per la musica?
Sì, naturalmente. Però adesso guardo al concetto di indipendenza in modo slegato dal tema dell’industria discografica: la grande industria è crollata quindi non è più un fattore determinante. Indipendenza oggi, per me, è l’autosufficienza. Poter gestire in modo autonomo la propria attività lavorando in modo più efficiente e su scala molto più piccola e sostenibile. Per quel che riguarda invece la parola politica, è un argomento che coinvolge il potere. Ma mentre il potere è il punto focale per le persone al potere, il modo in cui il potere è esercitato è una questione politica che è irresponsabile ignorare o vedere separata dalla vita quotidiana. Anzi, dev’essere una missione per la quale la gente deve impegnarsi.

A proposito di impegno, cosa chiedi ancora alla musica e cosa pensi che la musica possa ancora chiedere a te?
Non faccio richieste alla musica. Faccio questo lavoro perché trovo estremamente gratificante avere un’idea che prende forma e perché amo suonare con Bob e Todd negli Shellac. È un piacere estremo che mi manca terribilmente quando non posso assecondarlo. Non credo che la musica mi chieda nulla, ma quello che offro è un impegno serio e un affetto genuino alla materia. Sono stato ricompensato dalla musica con tante soddisfazioni e amicizie e con un sentimento di comunione con persone che non avrei mai potuto raggiungere in altro modo.

Gli Shellac dicevi: l’ultimo disco è “Dude Incredible” del 2014. Te lo chiedo senza giri di parole, quando cavolo tornate?
Il nuovo disco è sostanzialmente finito, rimangono solo alcuni piccoli dettagli, e spero che venga pubblicato prima che io diventi troppo vecchio, anche se sono già piuttosto vecchio.

Tu non invecchi mai, Steve. Dove sarai nei prossimi mesi?
Continuerò a rispondere al telefono e a fare un disco con chi me lo chiede, come sempre.