Home INTERVISTE Teho Teardo: «Il teatro? Una fortezza reazionaria»

Teho Teardo: «Il teatro? Una fortezza reazionaria»

tehoteardointervista Complice uno splendido album in compagnia di Herr Blixa Bargeld, Teho Teardo è tornato a Catania per ben due volte negli ultimi otto mesi. L’ultima? Il 21 febbraio scorso, al Centro Zo Culture Contemporanee, per presentare il catartico “Music For Wilder Mann” all’interno della rassegna “Partiture”. Al termine di quell’appuntamento, lo abbiamo fugacemente incontrato, promettendogli un’approfondita intervista via e-mail che non abbiamo tardato a inviare. E alla quale Teho, uno tra i più grandi compositori italiani in circolazione, non ha tardato a rispondere.

Facciamo un passo indietro, cominciamo più o meno dai primordi. Dopo l’esperienza Meathead ti sei spostato da Pordenone a Roma: un passaggio obbligato, ma sei comunque rimasto a vivere in Italia. Lo rifaresti? Oggi sceglieresti un’altra meta?
All’epoca stavo per trasferirmi a New York. Poi mia madre si è ammalata gravemente, alcune cose sono cambiate e così sono tornato a Pordenone. Dopo la sua morte me ne sono andato nuovamente. L’Italia sta attraversando un periodo che fa venir la voglia a molti di andarsene.

La prima colonna sonora, se non vado errato, è stata “Denti” di Gabriele Salvatores. Com’è avvenuto l’avvicinamento al territorio cinematografico? Desideravi diventasse un’attività a pieno regime?
E’ avvenuto tutto casualmente. In quel periodo Federico de Robertis, il suo compositore, gli fece ascoltare la mia musica. E fui coinvolto nel film.

Hai scritto la tessitura di film dolorosi per la memoria italiana, ma “Diaz”, per prossimità e violenza, lo è probabilmente più di tutti gli altri. Lo pensi anche tu? Perché della Diaz non si parla? 
Perché non è facile fare i conti con questo aspetto tragico della nostra storia recente. Fare quel film è stato difficilissimo.

Tra i brani inediti eseguiti, ce n’era uno tratto dal tuo prossimo o.s.t., “Lovable”, una produzione croata ispirata ad una storia vera. Cosa, in genere, ti convince ad accettare un lavoro? E cos’altro bolle in pentola, su quel fronte?
Sto lavorando ad un film Croato e, appena rientrerò dal tour, inizierò a lavorare alle musiche per la nuova creatura teatrale di Enda Walsh, lo sceneggiatore di “Hunger” del premio Oscar Steve McQueen.

Se dovessi definire la cosa in percentuali, quanto incide la sceneggiatura e quanto il girato sulle tue composizioni? Quanto il punto di vista del regista?
Direi che sceneggiatura e girato rappresentano ciascuna almeno il 50% della musica che verrà nel film.

Hai lavorato con Paolo Sorrentino per “L’amico di famiglia” e “Il Divo”, che t’è valso anche un David di Donatello. Sei stupito per il clamoroso successo de “La Grande Bellezza”? Era da tempo che una pellicola non generava un simile dibattito interno, in Italia.
La comunicazione odierna cerca le polemiche, io no. Non sono affatto stupito del successo. Dibattito? Sembra più una di quelle scaramucce da Facebook che durano un giorno. Il dibattito per me è qualcosa d’altro, cioè la capacità di argomentare punti di vista opposti.

Personalmente, ho scelto “Still Smiling” come miglior disco italiano dell’anno passato, nelle nostre classifiche di fine anno. Un album di canzoni mitteleuropee, ma pur sempre un album di canzoni, forse il primo della tua carriera. Casualità o precisa volontà?
Grazie, mi fa molto piacere. Comunque non è il primo, nel 1997 a New York registrai “Brooklyn Bank”, album degli Here che è un disco di canzoni.

Tra le diverse citazioni/ispirazioni dell’opera c’è spazio anche per Berlusconi e il suo impero mediatico, in “Come Up And See Me”. Vuoi spiegarci?
Un’idea di Blixa che mi ha sorpreso e che, come sempre, non ha alcuna cifra retorica in sé. Solo lui poteva parlare di Berlusconi in un disco evitando retorica e banalità. In Italia nessuno si è avvicinato alla sua intensità ed efficacia nel parlare di lui in un disco.

Chi sono i due “fantasmi” in copertina: un uomo (fronte) e una bambina (retro)? Cosa o chi rappresentano?
Ci piaceva l’idea di riproporre alcuni elementi delle vecchie fotografie degli spiritisti. I fantasmi sono quello che vogliamo o non vogliamo.

La collaborazione sta per ampliarsi con “Spring!”, che conterrà – tra l’altro – le cover di “Crimson And Clover” e “The Empty Boat”. Ho letto che l’idea di lavorare su quest’ultima è nata in Sicilia, dicci di più.
Vicino a Ragusa, la scorsa estate, Blixa mi ha fatto ascoltare “The Empty Boat”. Al rientro dalla vacanza ho subito cominciato a lavorarci, a settembre era già finita.

E’ soltanto l’antipasto del vostro secondo LP? Vuoi anticiparci qualcosa?
No, meglio ascoltarlo senza anticipazioni, è più interessante la sorpresa, non credi?

Hai conosciuto Blixa grazie a un progetto teatrale, “Ingiuria”, e il teatro non è che una tra le declinazioni della tua musica. A tal proposito, che mi dici della liaison artistica con Elio Germano, per “Viaggio al termine della notte”?
Ho visto Blixa la prima volta nel tour di “Halber Mensch” dei Neubauten, negli anni 80. Loro erano impressionanti, mai visto né ascoltato nulla del genere. Elio ed io abbiamo un legame che ci porta a suonare assieme sul palco, “Viaggio al termine della notte” è il nostro concerto, è il nostro modo di suonare. Elio è uno degli attori più bravi che ci siano in Italia e sul palco è fenomenale.

Con quello spettacolo siete passati dal Teatro Valle, oggi più che mai sotto una grossa lente d’ingrandimento. Cosa pensi di queste esperienze e del fuoco mediatico che attualmente le circonda?
Ho suonato diverse volte al Valle per il Valle! Ritengo sia fondamentale che si tentino nuove possibilità per ripensare il teatro. Ovviamente serve un pensiero, anzi ne servono molti e in grado di reinventarci completamente. Il teatro oggi è spesso inaccessibile per chi ha progetti nuovi, è una fortezza reazionaria che va rimessa in discussione. Per farlo servono progetti radicali, forti ed innovativi, ma di base serve molta qualità.

Al Centro Zo, per la rassegna “Partiture”, hai eseguito “Music for Wilder Mann”, narrandone la bizzarra genesi (l’omonimo libro gli cadde su un piede, mentre curiosava in una libreria di Berlino, ndr). Come ha reagito Charles Fréger quando lo hai contattato e gli hai detto: “sai, il tuo libro mi ha quasi rotto un piede e… niente, vorrei metterlo in musica”?
Charles era felice dell’idea e così abbiamo cominciato a collaborare. E’ un album che ho scritto velocemente, con una furia che mi ha costretto in studio senza sosta per qualche settimana. Fino alla conclusione del mix, senza sosta.

Un amico, al termine del live, mi ha confidato che era difficile concentrarsi sulla fissità degli scatti. Dici che è solo una sua suggestione?
O forse è solo un suo problema. Potrei guardare certe foto per un pomeriggio intero. Anche solo un particolare.

Cosa ti ha spinto a creare una tua etichetta, la “Specula Records”?
Il piacere di potermi occupare personalmente della mia musica.

Gli archi assumono sempre un ruolo principe nei tuoi lavori, e alcune collaborazioni – come quella con Alexander Balanescu – giustamente si reiterano. Però il “titolare inamovibile”, per mutuare una definizione dal calcio, è il violoncello di Martina Bertoni. Da quanti anni collaborate? Come vi siete incontrati?
Non amo il calcio né le sue definizioni. Daniele Della Vedova, mio carissimo amico dei tempi dell’università, me la presentò nella seconda metà degli anni ‘90. Aveva dei capelli orribilmente lunghi, fortunatamente poi li ha accorciati. Io e Daniele invece li stavamo già perdendo…