Home INTERVISTE Uzeda: «Il noise? Spremere gli strumenti al massimo»

Uzeda: «Il noise? Spremere gli strumenti al massimo»

5 Giugno 2006: In occasione della grande serata tenutasi ai Mercati Generali di Catania, con i padroni di casa Uzeda a supporto degli Shellac della leggenda vivente Steve Albini, Il Cibicida ha incontrato Giovanna Cacciola, vocalist della band catanese simbolo dell’indipendente italiano. Di seguito il resoconto della lunga chiacchierata cui abbiamo dato vita.

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A distanza di ormai molti anni da “Different Section Wires”, quali sono le sensazioni che provano gli Uzeda, band simbolo dell’indipendente italiano, in questo periodo di revival esasperato?
È un buon periodo, nel senso che, dopo tanti anni di relazione, ed anche momenti non dico di crisi ma comunque di difficoltà, momenti critici, di difficoltà di comunicazione… dopo tutti questi anni, e avendo superato parecchie difficoltà, è un momento personale di forte maturità, dopo esperienze individuali parecchio forti. La musica oggi per noi ha forse una valenza ancora più intensa di quella che aveva qualche anno fa, perché dentro la nostra musica ci sono più esperienze di quelle che avevamo dieci anni fa. E sono esperienze forti perché, chiaramente, più vai avanti negli anni, più quello che ti tiri dietro è forte ed intenso, più responsabilità, più avvenimenti belli ma anche sgradevoli. Ognuno di noi ha in questo momento un grosso bagaglio che riversa nella musica. È un ottimo momento per gli Uzeda, di realizzazione, di soddisfazione, di voglia e di piacere di comunicare l’uno con l’altro con la musica, e chiaramente di comunicare e scambiare con gli altri quello che facciamo.

Qual è la vostra concezione di “rumore”, nel senso più “romantico” del termine?
Noi non abbiamo mai inteso il rumore, cioè il noise, come uno stile musicale. Se questo è successo è stato quasi casuale, cioè casualmente l’abbiamo utilizzato, non con la consapevolezza di volere far parte di un genere o di una corrente musicale. Semplicemente, utilizzando gli strumenti elettrici, utilizzi tutto quello che lo strumento ti può dare, e ci sono frequenze e suoni che non sempre sono omologati, non sono i suoni standard diciamo. Fra questi il rumore può essere considerato un suono. Nella musica elettrica senz’altro, quindi se utilizzi lo strumento elettrico inevitabilmente ti imbatti nelle frequenze insolite che ti danno gli strumenti usati con gli amplificatori, e devi decidere se eliminarli e suonare “pulito” oppure utilizzare tutto quello che viene dal suono elettrico. Chi suona negli Uzeda ha deciso di utilizzare tutto, non c’è nessuna intenzionalità nel volere far parte di una corrente, è solo desiderio di utilizzare tutte le potenzialità del suono elettrico.

A proposito di “rumore”, negli ultimi anni c’è stato un proliferare di band post rock. Te ne sei fatta una idea?
Secondo me non significa nulla, è post tutto quello che viene dopo qualcosa. Oltretutto, tutti coloro che dieci anni fa sono stati definiti i protagonisti del post rock, hanno sempre affermato che questa è una solenne balla, non esisteva il post rock, era solo il modo di suonare di quelle band, che derivava da una indole dovuta soprattutto ai luoghi che abitavano, il sud degli Stati Uniti, dove c’è da sempre questo ritmo rallentato e dilatato. Ma non esiste secondo me il post rock, non vuol dire assolutamente nulla, è come quando si parlava di grunge e la gente di Seattle ci rideva su. Si ha una corrente musicale quando c’è una manifesto, ci sono persone che dichiarano di farne parte, quali sono le loro intenzioni, una volontà che nasce dagli stessi musicisti. Quando l’etichetta viene appioppata dai giornalisti e dalla critica è tutta un’altra storia, può servire a semplificare, ma è deleterio e finisce con l’avere solo effetti negativi.

Salto nel passato: come siete arrivati a “Different Section Wires”? Quali erano le vostre influenze, come avete concepito questo disco che può essere considerato il vostro crocevia artistico?
Noi abbiamo sempre lo stesso metodo, che è quello semplice di andare al posto prova e tirare fuori quello che ognuno di noi sente. I nostri pezzi nascono dalla partecipazione di tutti e quattro, c’è un grosso lavoro di scrematura, di sistemazione di un lavoro fatto da quattro persone diverse fra loro, e non è facile. Gli ascolti, allora come oggi, sono fra i più disparati in assoluto, ascoltiamo tutto senza pregiudizi, cerchiamo anche roba che non conosciamo ma che può piacerci, nuova, vecchia, non importa. Allora come oggi.

E adesso uno sguardo al futuro: il vostro prossimo album, in uscita in agosto negli U.S.A. ed a settembre qui in Italia, si intitola “Stella”, un titolo di italiana memoria che segna uno strappo rispetto al passato. Puoi darci qualche notizia sui contenuti e sul titolo stesso?
Una delle canzoni del disco si chiamava “Stella”, prima. Poi quando abbiamo cercato il titolo dell’album, abbiamo deciso di chiamarlo “Stella”, cambiando invece il titolo della canzone. “Stella” per tanti motivi, uno di questi è il desiderio di sognare, quando guardi alle stelle è perché stai cercando di andare oltre le difficoltà personali, guardare l’infinito, le stelle, è inseguire un sogno, l’andare oltre quello che vivi normalmente, in un posto lontano ma brillante. In questi tempi bui “Stella” è un grosso incoraggiamento. Il disco nuovo è un po’ più introspettivo rispetto al passato, magari dal vivo rende diversamente, c’è più magia e trasporto, ma su disco si nota l’intimità, se così si può definire.

Ultimante c’è stata una polemica riguardo gli Afterhours, perché hanno proposto il loro ultimo album anche in lingua inglese, in quanto la lingua diversa ha storpiato a detta di alcuni i testi originali. Voi avete sempre fatto musica in lingua inglese, ma avete mai pensato di comporre i testi in italiano? E cosa pensi della lingua inglese per gli artisti italiani?
Ora vi confesso una cosa: io ho registrato con gli Uzeda uno dei brani che è andato nella compilation dedicata a Impastato, un pezzo in siciliano. E poi ho cantato tre canzoni in italiano in un disco di una etichetta tedesca, la Winter & Winter, che registra concerti dal vivo in location particolari a tema. Ed ho in progetto una collaborazione con una band siciliana per cantare un pezzo in italiano. Tutto questo per dire che non ho nessuna preclusione a cantare in italiano, non sono però mai riuscita a comporre in maniera soddisfacente, per me, in italiano. È difficile, soprattutto l’adattare l’italiano a tempi irregolari quali quelli che noi facciamo, non mi soddisfa assolutamente il modo in cui lo faccio. Nel panorama italiano l’unico artista che ritengo capace di scrivere in italiano, lasciando il testo intatto nella sua poesia ma adattandolo a tempi e melodie irregolari, è Francesco De Gregori. Se si notano le melodie di De Gregori, le modalità in cui usa le frasi, si comprende la difficoltà di farlo. De Gregori è il massimo per me in Italia da questo punto di vista.

Il pubblico italiano è esterofilo?
Secondo me no. Non più quantomeno, lo era dieci o venti anni fa. Il pubblico italiano, per un innato senso di ospitalità, quando viene qualcuno da fuori lo accoglie in maniera esemplare; questo è un merito, significa che è un pubblico aperto anche ad altri suoni. Ma oggi, con la diffusione della musica che c’è, nessuno può essere definito esterofilo, si hanno le orecchie allenate a sentire di tutto, si sceglie semplicemente ciò che piace. Ho visto fare altrettanto in Giappone, e secondo me è una cosa splendida.

Negli ultimi sei/sette anni c’è stato il boom di internet e della comunicazione, ormai globalizzata. Quanto ciò favorisce i gruppi di adesso, e quanta pubblicità in meno credete di avere avuto voi per la vostra promozione, con la mancanza di questi canali?
Faccio un esempio: se si va in un ipermercato le probabilità di comprare determinate cose sono bassissime, perché si vede tanta roba insieme che, senza avere le idee chiare, non si riesce a scegliere. Internet è per un verso una genialata, perché consente di ascoltare e trovare tutto ciò che si vuole, ma solo se si hanno le idee chiare e si sa cosa cercare, se si unisce ciò all’acquisto di dischi, di libri, di riviste cartacee. In questo senso è utilissimo. Ma se ciò viene a decadere diventa tutto consumo, solo consumo, non c’è lo scambio, non c’è il rapporto con le persone, e ciò è dannoso.

Quali sentimenti ha suscitato in voi la morte di John Peel? Gli Uzeda sono stati una delle poche band italiane che ha avuto modo di lavorare col famoso dj americano…
Noi non abbiamo mai incontrato personalmente John Peel, ci siamo scritti, lo sentivamo parlare alla radio di noi, presentarci, farci gli auguri… ma non l’abbiamo mai incontrato, per cui per noi è stato una sorta di mito, ci ha invitati due volte, ha stampato un nostro disco, ci ha aiutati moltissimo. Ha focalizzato su di noi l’attenzione di gente che non ci avrebbe dato alcuna importanza altrimenti, ha un po’ condizionato, in bene ovviamente, la nostra storia. Per cui abbiamo gratitudine immensa nei suoi confronti, e quando è morto è stato un momento particolarmente triste per gli Uzeda. E poi non c’è nessuno che può raccogliere la sua eredità, era una figura importantissima, che ascoltava la musica come un ragazzino alle prime armi, tanta era la sua passione.

Altro grande personaggio: Steve Albini. Voi siete stati prodotti da lui, ci piacerebbe quindi sapere come lavora Albini, quali sono quei particolari che noi non riusciamo a scorgere ma che risultano fondamentali per la formazione di un album?
Steve è una persona estremamente competente nella registrazione, sa benissimo come va registrato un gruppo a seconda del posto in cui sta registrando. Di conseguenza è in grado di catturare il suono di una band così per come è dal vivo, e questa è una cosa difficilissima. È questa la sua competenza più grande, suonando con lui ci si sente in una botte di ferro, incute sicurezza nel gruppo che produce. Con i Bellini ad esempio abbiamo registrato in uno studio penoso, in cui metà dell’apparecchiatura non funzionava, ma Steve è riuscito a tirare fuori il meglio di noi comunque. Questa è competenza estrema.

A proposito dei Bellini, quanto c’è degli Uzeda nel DNA dei Bellini? Cosa vi siete portati dietro?
Ci siamo portati dietro noi stessi, non è che puoi liberartene… cambiano i rapporti con le altre persone con cui lavori, ma la tua mano battendo sul muro o sul legno fa un rumore diverso ma è sempre la tua mano. Sei tu comunque.

Domanda di rito: se ti dico “Cibicida” cosa ti viene in mente?
Mi suggerisce qualcosa che elimina o uccide qualcosa che si mangia…