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Faust – 04/10/2008 – Roma – Init

A luci accese la sala dell’Init mostra già un assaggio dello show che i Faust faranno di lì a poco. Anzi di più, ci mostra un “davanti le quinte” che è anch’esso parte dello spettacolo esattamente fedele agli illustri esempi del Teatro Classico. Ci sono due tizi in colbacco, diverse chiome vaporose proprio come negli anni ’70, moltissimo pubblico palesemente “originale” che ascoltava la band ai tempi di “So Far” (1972), c’è Zappi Diermaier che barcolla con un drink miracolosamente stretto in pugno, Jean-Hervé Perón che zampetta irrequieto a piedi scalzi, fa su e giù dal palco, strilla qualcosa verso il mixer, sistema la sua sega elettrica, snoda fili. Poi, mentre il concerto pareva ancora lontano dal via, succede qualcosa. Tutte le luci si spengono, ma il palco è vuoto. Perón acciuffa un microfono e avvolto dal buio pesto comincia a decantare nel suo inglese transalpino una specie di “no hay banda” lynchiano: “questo non sono io, questo non è reale, non ci sono chitarre, non è musica. Io non sono qui, voi tutti non siete qui, questo non è uno spettacolo, questo è il buio”. A lui si aggiunge uno Zappi praticamente sbronzo che arriva sgomitando. Insieme spingono un grosso barile a rastrellare il pubblico. Ecco che comincia il rituale distruttivo: Jean-Hervé afferra la sua sega elettrica, Zappi un trapano, il barile è devastato. Scintille, fumi, tossine, rumore, frastuono. La sala dell’Init è avvolta in una coltre di fumo bianco che spezza l’oscurità, ma siamo solo all’inizio. “No hay banda” dicevamo, la musica (dei e per i Faust) è un’esperienza totale, arte nell’arte, qualcosa di patafisico. Non ci sono ruoli precisi però, c’è un turbinio incessante di posizioni, di slanci mimici, di espressionismo. La loro musica, dunque, parte, si ferma, cambia pelle come un rettile, si rinnega, connette e “disconnette” (“Disconnected” è anche il titolo dell’ultimo disco datato 2007). Quando si parte con It’s A Bit Of A Pain tutto ciò che si ha vicino non ha più importanza, vince il dadaismo sonoro che sta lassù sul palco tra rottami, lamiere di ferro, fiamme ossidriche. Sul pavimento “immaginario” si muovono i già citati Perón e Diermaier (unici superstiti della storica formazione), Amaury Cammbuzat (Ulan Bator) importantissimo per la ripresa delle ostilità della band nel ‘97, e poi ancora James Johnston, James Hodson e Geraldine Swayne. Non ci sono stacchi tra pezzi, non ci sono pause. Le chiacchiere tra Geraldine, stretta in un giubbino nero, e Jean-Hervé, ora a petto nudo ora con una mimetica, sono anch’esse performance. Non c’è distanza tra palco e pubblico, tra “diretta” e “attesa”, tutto si svolge in un flusso continuo. E il suono che esce dal lavoro dei sei è eccezionale: “orso bruno” Zappi, occhi a fessura e presenza mastodontica, picchia i piatti come il suo trapano, L’art terrorist Perón non sta fermo un attimo con la sua voce dispettosa e il suo basso a mitraglia, Geraldine Swayne ha un carisma rock eccezionale, pare quasi Lou Reed al femminile con le sue masticate liriche, la teatralità surreale ed i bozzetti di colore (le sue dita intinte nella tempera rossa). Poi ci sono Cambuzat e Johnston che si sfidano tra synth e chitarre elettriche, lanciando in orbita il rumorismo dei pezzi e Hodson, dietro tutti, ad asfaltare terreni di pura psichedelia. E il set di canzoni è dilatato, deformato, malmenato dall’improvvisazione e da una certa abbuffata di destrutturalismo (la canzone è un concetto debole). Mami is blueSo FarMiss Fortune e l’omaggio al passato è servito. Soprattutto quando, come encore, i Faust chiudono con la delirante It’s A Rainy Day, Sunshine Girl, ovviamente portata alle estreme conseguenze da una coda strumentale lunghissima. Poi torna il buio, le scintille si sono assorbite, le schegge hanno trovato asilo, i rumori metallici si sono sedati. Sul palco “no hay banda”. Non vola una mosca. E’ tutto finito o si è ancora dentro lo show?

A cura di Riccardo Marra