Home LIVE REPORT Nine Inch Nails @ Parco della Musica, Milano (24/06/2025)

Nine Inch Nails @ Parco della Musica, Milano (24/06/2025)

Photo Credit: nin.com / John Crawford
Photo Credit: nin.com / John Crawford

Gli aerei di Linate tagliano il cielo come accette. Nuvole sparpagliate cariche di umidità spronano le zanzare a invadere il Parco della Musica a due passi dall’aeroporto. È strana la luce mentre il DJ Boys Noize aumenta la temperatura di pit e parterre, assomiglia a una lampada capovolta. I Nine Inch Nails sono attesi per le 22:00 e poco dopo le 22:00 effettivamente arrivano. Sembrano una band vera, non più solo la costola, la carne, il sangue di Trent Reznor che, comunque, si presenta con il suo rigore iconoclasta e accentratore: canotta nera, anfibi, una specie di kilt di pelle. La band, si diceva, è quella che si è stretta al suo fianco negli ultimi anni: c’è Atticus Ross con il suo pentolone alchemico di suoni elettronici, ci sono Alessandro Cortini, Ilan Rubin, Robin Finck e c’è un “Peel It Back Tour” che assomiglia molto a un giro di giostra. I NIN non rilasciano materiale nuovo dai tempi del COVID, nel frattempo ognuno di loro ha messo assieme progetti svariati e anche premi Oscar. Non c’è molto da dire quando Trent decide di dare via alle ostilità, c’è solo da farsi risucchiare nel vortice con Somewhat Damaged che si ficca nelle orecchie e negli occhi con queste luci a rigirarsi come specie di sequenze di Fibonacci. Reznor è muscolare, granitico, la sua voce è potente e non ha perso neanche una fibra nonostante i sessant’anni compiuti da un mese. C’è un cameraman che lo segue sul palco in piano sequenza, Trent sfodera, decelera, impatta. Esattamente come la musica di questo progetto mai realmente emulato da qualcun altro proprio perché fondato su corpo e anima di un artista gigantesco e uno dei pochi e essere rimasto temibile. Il suo è uno sguardo difficile da reggere, la sua tensione, il suo patos. Nessuna concessione all’accondiscendenza.

C’è un po’ tutta la storia dei NIN nella scaletta milanese. C’è, come detto, “The Fragile”, c’è “The Downward Spiral” con March Of The Pigs che spettina i volti con la tensione politica, c’è “Hesitation Marks” con la intima Copy Of A e con Reznor che sfiata fatalista “I am just a copy of a copy of a copy”. C’è l’omaggio a David Lynch con The Perfect Drug dal film “Lost Highway” (e con la filodiffusione del tema di “Twin Peaks” una volta che la band lascia lo stage). C’è “Pretty Hate Machine” con il baratro del mondo occidentale di Head Like A Hole. Nella notte di San Giovanni poi si verifica uno strano imbuto. Il santo a cui tagliarono la testa, in un incontro tra sacro e carne, volteggia sul palco. Trent spende le poche parole che ha per dire del privilegio di aver avuto un amico come David Bowie. Lo omaggia con I’m Afraid Of Americans, il pezzo che li vide assieme in un videoclip rimasto alla storia. Reznor è Johnny, appunto Giovanni, uno stereotipo che racconta l’America raccapricciante. Quei quattro versi masticati da Trent sono un rinculo a elastico direttamente dalla distorsione targata 1995. “Johnny vuole un cervello, Johnny vuole scolarsi una Coca, Johnny vuole una donna, Johnny vuole pensare ad uno scherzo”.

E poi ancora Giovanni. Stavolta in chiusura. I NIN non si producono in encore, vanno dritti sfidando pure qualche aereo di linea in volo sopra le nostre teste. Chiudono con Hurt, la canzone più dolorosa tra tutte. Quella che Johnny, appunto Giovanni, Cash rilesse cercando di far proprio il nichilismo di una generazione più giovane della sua. Cash dalle baruffe degli anni ’50, il whisky, i capelli gonfi, riverso nel buco nero di fine millennio. Reznor si mette le mani in testa: è ancora lì. E anche il dolore, insieme a tutto il resto: la musica, il rumore, il ritmo, il baratro. È il modo di vedere se si sente ancora qualcosa. È la ragione per cui si fa tutto questo.


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