Home RECENSIONI Black Sabbath – Master Of Reality (1971)

Black Sabbath – Master Of Reality (1971)

masterofrealityDrogarsi fa male, d’accordo, ma negli anni ’70 non credo gliene importasse tanto. Dove si va a ficcare sennò il famoso credo “sesso, droga & rock n’ roll”? Le rockstar ci campavano con gli stupefacenti. Ci condivano la pasta. Ci registravano i dischi. E tutto si trasformava in arte. In successo. Normale amministrazione per quel periodo. “(Storie di) Ordinaria follia”, come scriveva il vecchio Bukowski nel ’75. Ecco, facciamo un tuffo nel passato. Quattro ragazzi di Aston (cittadina alle porte di Birmingham) ormai divenuti famosi col nome di Black Sabbath ne sanno qualcosa. Registrare avvinazzati e sotto effetto di droghe è nel loro stile e linguaggio. Reduci dal tour di “Paranoid” (1970) che li fece sbarcare negli USA, consumati dall’enorme successo che gli portò Iron Man, si segregano nuovamente in studio (1971) con il produttore Roger Bain, per dare vita a Master Of Reality“Padrone Della Realtà”, con ovvio rimando agli effetti allucinogeni provocati dall’uso/abuso delle droghe. Ed ecco che nel giugno del 1971 abbiamo il terzo “capolavoro del British Heavy Metal-Doom” targato Black Sabbath. Un disco all’avanguardia.

Gli anni settanta sono intesi, da quasi tutti gli artisti del periodo, come l’era dei “concept album”. Seguendo con convinzione questa corrente, i Sabbath si rifiutano di concedere un pezzo da commercializzare ed utilizzare come singolo per le emittenti radio (eccenzion fatta per un demo su sette). Solo Children Of The Grave, terzo brano, riesce a trovare uno sbocco per la promozione dell’album. Sweet Leaf. “Foglia Dolce”. Questo è il titolo dato alla prima traccia. Intro iniziale aggraziato da un elegante, catarroso colpo di tosse. Testo pseudo-romantico, intima dichiarazione d’amore dedicata alla marijuana. Il contesto satanico si ritrova con After Forever. Pezzo perfidamente beffardo, pesante e laborioso, critica le menti chiuse e l’ipocrisa degli uomini di chiesa e le finte credenze teologiche (“Dio è solo un pensiero nella tua testa o è parte di te? Cristo è solo un nome che hai letto in un libro quando andavi a scuola?”), oltrepassando un muro di critiche che calpestano la reputazione della band inglese. Osbourne strilla divertito la fine del mondo ed immagina il pontefice penzoloni.

L’interludio per il quarto pezzo è affidato alla strumentale Embryo, magia dalle mani di Iommi, riconducibile all’acustica medievale. L’attesa ansiosa, quei lunghissimi angoscianti ventotto secondi, bruciano ogni tappa. Il silenzio. Ha inizio la marcia minacciosa di un esercito. Un esercito di bambini. Bambini delle tombe. Cavallo di battaglia dei Sabbath, Children Of The Grave dà un rumoroso schiaffo alla cultura hippy per cedere il posto ad una nuova generazione di menti consapevoli, ad una nuova concezione pessimista, seppur realista del mondo (“Oh, bambini di oggi siete i bambini della tomba!”). La quiete dopo la tempesta. Un fiore è sbocciato: Orchid. Strumento acustico tra le mani di Iommi. Morbidi, sottili arpeggi si distribuiscono nell’aria, composte armonie ultraterrene rilassano donando un’intensa pace. Ma è un inganno. Una tregua. Spietato, disumano parte il riff di Lord Of This World . Ritmica perfetta, chitarra graffiante, basso potente e tipica voce gracchiante. In perfetto stile Black Sabbath. Il signore dell’oscurità è la star.

Al letale riff di “Lord Of This World” si contrappone la nostalgia di Solitude, settimo pezzo dell’album. Vengono sempre sfruttate al massimo le oscure sonorità doom, ma gli amplificatori si spengono per lasciare spazio al desolato, demoralizzato canto di Osbourne. Un amore è ormai sfuggito e resta solo uno sconfinato, malinconico oceano di ricordi. Come è ormai da copione, in un disco dove le fasi si alternano, troviamo, a conclusione dell’album, la vigorosa potenza di Into The Void. Pezzo mutevole fino al midollo, che si trasforma, verso il terzo minuto d’ascolto, in un testamento firmato dell’Heavy Metal: amplificatori, in procinto di esplodere, sparati al massimo, doppio pedale a tavoletta (un po’ troppo rumorosa la meccanica, forse). Osbourne denuncia un imminente disastro ecologico e grida in faccia agli uomini di potere che giocano a Risiko sperimentando con il mondo. Finale hippy. Una canzone di pace. Ma Satana c’è sempre. Strano? Naaa. Eccovi gli anni della droga e non i drogati, perché loro sono gli “artisti”. Eccovi i Black Sabbath nell’era del massimo splendore. Eccovi “Master Of Reality”. Senza dubbio un signor disco. Un gran disco. Un disco con le palle.

Nota 1: in una intervista rilasciata al Rolling Stone, Iommi e Osboune raccontano: ”Quasi al termine delle registrazioni i Led Zeppelin vennero in studio a suonare con noi. Eravamo amici di John Bonham, un nostro compaesano, ma Bill non gli lasciava mai suonare la batteria per paura che la rompesse: infatti l’unica volta che lo lasciammo fare, finì in pezzi!”.

Nota 2: sempre nella stessa intervista raccontano che avevano da poco lasciato il loro manager, quando gli Zep chiesero se fosse stato possibile sostituire quest’ultimo: “Non eravamo d’accordo: per noi era degradante essere amministrati da un altro gruppo.”

(1971, Castle)

01 Sweet Leaf
02 After Forever
03 Embryo
04 Children Of The Grave
05 Orchid
06 Lord Of This World
07 Solitude
08 Into The Void