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Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

Quanto di Dylan è reputazione e quanto valore concreto, reale, presente, a questo punto della sua carriera? Sembrerebbe quasi, a sentire la voce unanime della critica, che il maestro Zimmerman non riesca a smettere di pubblicare dischi meravigliosi, perfetti, intoccabili da “Time Out Of Mind” (1997), il grande, trionfale ritorno agli alti livelli del passato, ad oggi. Ma quanto di questa esaltazione ammonta a rispetto per il passato e quanto a genuino apprezzamento per le qualità musicali di ciò che ha in questo nuovo millennio prodotto? Beh, “Time Out Of Mind” è davvero un disco eccellente, in grado di invertire la tragica rotta di mediocrità intrapresa con i cosiddetti “dischi cristiani” che negli anni ’80 fecero pensare che il grande poeta, l’autore di almeno cinque tra i migliori dischi del secolo, fosse definitivamente finito, kaputt, passato per sempre, e riportarlo in auge anche tra i critici.

Ma in realtà a Dylan di essere in auge tra i critici non sembra essere importato mai molto. Non è Jagger: non cerca di essere moderno, al passo coi tempi, in tema coi ragionamenti correnti. Beh, a meno che non ne abbia voglia. Non erano di certo in tema coi ragionamenti correnti “Love And Theft” (2001) o “Modern Times” (2006), o tre stramaledetti dischi di cover del Great American Songbook, uno dei quali triplo: belli, bene, bravo, per carità, ma non è realistico strapparsi i capelli per un ultrasettantenne la cui voce non è mai stata l’epitome della gradevolezza neanche quand’era giovane, che si infogna a cantare una cinquantina di canzoni sinatriane.

Non sappiamo se per effetto del Covid-19, dell’isolamento o di Dylan stesso, a 79 anni persino più enigmatico di quando ne aveva 20, ma Rough And Rowdy Ways suona corrente, al passo. No, non parla di Tik Tok, né di “Parasite”, ed è una lunga carrellata di riferimenti a gente e opere passate, come “Anne Frank, Indiana Jones and them British bad boys, The Rolling Stones”; ma è rilevante nella riflessione sul “lungo, strano viaggio della scimmia nuda”, come ha detto l’artista stesso in una lunga, rara intervista concessa al New York Times. La perfetta tempestività che ha sempre caratterizzato Dylan, a volte nello sberleffo, a volte nel rinascere, a volte nel definire i tempi.

La inarrivabile tempestività che gli fa donare Murder Most Foul a chi avesse voglia di sentirla durante il lockdown, quasi diciassette minuti che parlano di JFK, di Altamont, di Woodstock, di Charlie Parker… di tutto quel mondo che forse questa tragica epoca di cambiamenti sta mai come oggi iniziando a essere alle nostre spalle. La speranza di una nuova era narrata attraverso l’era passata; un’eterea base di piano e violino e una recitazione quasi scevra di ogni melodia, un enorme sforzo di concentrazione, analisi e comprensione per un mondo che vive di contenuti rapidi, che legge poco e ascolta meno, nell’esatto – e forse irripetibile – momento nel quale le presunte necessità che avevano reso tale quel mondo erano temporaneamente venute meno, facendo sgretolare dinnanzi ai nostri occhi decenni di accelerazione, di isteria, di sovraffollamento di contenuti.

Parole di conforto, musica di sollievo: quel mondo che si sta sgretolando davanti ai nostri occhi non è tutto da buttare, non è un disastro completo. In questo Dylan non si dice nostalgico, non guarda indietro ma avanti e lo fa con la sua voce, che suona miracolosamente come una improbabile combinazione delle tante diverse voci che abbiamo sentito nella sua quasi sessantennale carriera. Con Dylan non sono mai solo le parole e non è mai solo la musica: “Rough And Rowdy Ways” non propone moderne rivisitazioni influenzate dalla trap del suono dylaniano né beat inconsueti, non si avventura come Bowie in un radicale cambiamento alla ricerca di un suono nuovo: è la combinazione di ciò che dice e come lo dice che rende il mezzo o, meglio, l’analisi di esso una mera formalità.

Che cazzo significava “The sun’s not yellow / It’s chicken” su una base di blues in dodici battute? Beh, non è mai stato quello il punto, come non è il punto il significato di “I’ll take the Scarface Pacino and The Godfather Brando / Mix it up in a tank and get a robot commando” (da My Own Version Of You), ed è anche difficile dire quando il vecchio Bobby, col suo sardonico sorriso, ci stia prendendo per il culo. Dylan ha vinto un Nobel per la letteratura, si potrebbe dire “che cazzo, certo che il punto è il significato delle sue parole!”. Ma gli si farebbe un grande torto. Dylan è un musicista, certo, un poeta, assolutamente, forse uno dei grandi poeti della storia. Ma nessuna delle due cose è realmente stata ciò che lo definisce.

Del resto a riascoltare oggi “Saved” o “Shot Of Love” non è che siano questi clamorosi disastri musicali che si diceva all’epoca; sono semplicemente dischi nei quali il vecchio Bob non riuscì a dipingere con musica e parole qualcosa di realmente potente e profondo. Perché Dylan è un pittore. No, non letteralmente (beh, sì, anche letteralmente, ma non è ciò che rileva al momento) ma metaforicamente. La grandezza di Dylan sta nella grandezza nelle immagini che dipinge attraverso la combinazione, assai mutevole nel corso dei quasi sessant’anni della sua carriera, di musica e parole, e nella potenza – comica, tragica, profetica, critica, emozionale, poetica, drammatica, ridicola – che hanno queste immagini nel suscitare emozioni.

E in “Rough And Rowdy Ways” Dylan lo fa con una pennellata e dei colori che non erano così vitali da anni, anni nei quali ha pubblicato dischi validi ma la cui potenza nelle immagini non poteva lontanamente competere con “It’s Alright, Ma” o “Buckets Of Rain” o “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”. Infatti non è necessario lanciarsi in tediose analisi testuali, in racconti dettagliati di quale canzone sia una ballad e quale un blues. Bisogna prendersi un po’ di tempo, sedersi e ascoltarlo “Sing songs of love / […] songs of betrayal” e godersi il miracoloso evento di uno di quei dischi straordinari di Dylan che rimangono per sempre. E se stavolta leggete le sperticate lodi che hanno accompagnato anche i dischi precedenti, dagli anni ’90 ad oggi, forse è la volta buona che potete crederci.

(2020, Columbia)

– Disco 1 –
01 I Contain Multitudes
02 False Prophet
03 My Own Version Of You
04 I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You
05 Black Rider
06 Goodbye Jimmy Reed
07 Mother Of Muses
08 Crossing The Rubicon
09 Key West (Philosopher Pirate)

– Disco 2 –
01 Murder Most Foul

IN BREVE: 5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.