Home RECENSIONI Caroline Polachek – Desire, I Want To Turn Into You

Caroline Polachek – Desire, I Want To Turn Into You

“Uscivo di casa e potevo vedere la lava rossa scorrere per miglia e miglia contro il cielo notturno, e sembrava la più incredibile metafora visiva per ciò che stavo attraversando – sentire questa inesplicabile, intraducibile, imperscrutabile, tettonica, caotica energia scorrere dal basso”.

Ci perdoneranno i cinici, se siamo deboli di cuore. Ma da catanesi, noi de Il Cibicida, non potevamo che cominciare questa recensione con le parole che Caroline Polachek ha speso, in un’intervista al New Yorker, sull’Etna – una presenza che ha fortemente ispirato Desire, I Want To Turn Into You. Le dedichiamo, simpaticamente, a chi fa tappa a Catania – dicono loro – “solo per l’aeroporto, poi dritti a Taormina e Ortigia”. O a chi viene in città per poche ore e chiaramente, al vulcano, nemmeno si avvicina. Ma veniamo al dunque. Anno 2019: la Nostra pubblica il suo primo album (a nome proprio) dalla fine dell’esperienza Chairlift, “Pang”. È un raffinato policromo alt-pop, certamente ispirato, che regala a Caroline una seconda vita e una differente visibilità. A trentaquattro anni, con un matrimonio appena finito alle spalle, senza una casa e intrappolata in una carriera artistica insoddisfacente, era riuscita a compiere il primo passo verso il desiderio di essere una popstar. Poi, tremendamente, Covid. La morte del padre dovuta proprio a complicazioni in merito, l’assenza (come tutti) dai palchi; una permanenza in Inghilterra; un viaggio a Roma e – appunto – in Sicilia. Nuove realtà, nuovi percorsi, nuove sensazioni. E un nuovo disco già agli albori. Il disco della consacrazione. 

Non è difficile capire perché questo finto sophomore sia balzato in cima alle cronache musicali, dividendo in maniera abbastanza violenta sia critica che pubblico con la sua anima tendenzialmente retrò. Non si tratta, contrariamente a ciò che si crede, di very easy listening. Perché se è vera la capacità radiofonica di tutti e dodici i pezzi, se è vero l’assoluto e innegabile impianto votato alla melodia – è vero anche un netto distacco dai barocchismi riempitivi, dal ruffianesimo della cassa dritta, dall’escalation da dancefloor, dal testo da copertina. È un’opera, questa, che tiene costante un equilibrio attentissimo a non eccedere, che cambia e ricambia passo con una certa sorpresa, che mescola i toni senza mai sacrificare la proporzione, l’eleganza. La voce della Polachek, assoluta protagonista, lo è da subito: con l’incipit di Welcome To My Island ci porta in territori Bush-iani da ammaliante sirena, su toni decisamente 80s che esplodono in un refrain che strega già al primissimo ascolto. Ma non è il solo. Perché lo stesso effetto sortisce il downtempo di Pretty In Possible e lo sfrenato ma strozzato r’n’b della sensualissima Bunny Is A RiderSunset, a seguire, è semplicemente una perla. Comincia come un flamenco cheap che poi vira, grazie agli splendidi volteggi canori dell’autrice, in catarsi pura – dissolvendosi con un cortocircuito in chiaroscuro difficile, sinceramente, da ignorare (come se Liv Ullmann bucasse lo schermo per saltare in continuità da un film di Bergman a una festa in Barceloneta). 

Immediatamente dopo, parte la dolente Crude Drawing Of An Angel: una passeggiata onirica per voce di Angelo Badalamenti. Con I Believe, dedicata alla scomparsa amica SOPHIE, è invece tempo per il capolavoro breakbeat del lotto, che schiude le porte all’unico – ma incisivissimo – featuring (doppio) del long play. Le invitate alla festa sono, guarda caso, due influenze palpabili per Caroline: Grimes e Dido, che regalano a Fly To You il giusto carattere per stare al centro del paese. Blood And Butter è l’unico sussulto catchy prima del catartico uno-due tra l’eterea Hoperdrunk Everasking (in cui la dirompente impronta di Imogen Heap risulta più netta che mai) e la quasi prog-folk Butterfly Net.

Con Smoke, traccia dichiaratamente e indissolubilmente legata al vulcano citato in premessa, si raggiunge una cima dalla quale non si scende nemmeno attraverso la conclusiva Billions. Il coro di voci bianche che chiude “Desire”, col suo ripetuto “I never felt so close to you”, è veramente il finale da dieci e lode per un album divertito e sofferto, ebbro e logico, lieve e pertinace che avvicina noi ad un’Artista divenuta grande e lei – se sarà brava a non mollare il colpo – a un desiderio maturato tardi ma realizzato, tutto sommato, meritatamente presto.

— 2023 | Perpetual Novice —

IN BREVE: 4,5/5