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Darkness – Hot Cakes

“La letteratura sembra essersi messa al riparo in una nicchia della nostra cultura, se è vero che siamo ancora pronti ad accettare un libro sui generis: Denti Bianchi di Zadie Smith, ad esempio, non rappresenta altro che sé stesso. Non è il precursore di una nuova rivoluzione letteraria giovanile, di tendenza, multiculturale, ecc. e ha profonde radici in una tradizione narrativa che ci è familiare. Ma ciò non ne riduce il valore in quanto opera eccezionale, o almeno interessante, e certamente non l’ha resa impopolare, né tra i critici, né tra i lettori. Se i invece si fosse trattato di un disco, lo avremmo probabilmente ignorato, accampando il pretesto che conosciamo già quel bel modo di scrivere e che tanta ambizione narrativa non ci è nuova, grazie mille, stiamo aspettando l’arrivo di qualcos’altro.”  (Nick Hornby, 31 Canzoni)

Con queste parole Hornby sostiene la sua arringa a favore del pop (nel caso di specie “Smoke” dei Ben Folds Five), e devo dire che il primo pensiero verso il quale esse mi hanno portato è stato “Permission To Land”, l’esordio multi platino della band inglese. La critica più frequente posta nei confronti dei fratelli Hawkins e del loro pop mascherato da hard-rock (che è la medesima cosa che si può dire di “Highway To Hell” o “Back In Black”, a meno che non si intenda il termine pop come epiteto terribilmente dispregiativo) è che siano una copia di una copia, una macchietta, un “già sentito, che noia”. Chi vi scrive è molto lontano da queste critiche, anzi le trova banali ed infondate: la costante ricerca di qualcosa di nuovo porta spesso a dimenticare che la musica pop ha l’unico compito di soddisfare le orecchie dell’ascoltatore, è un quid pluris quell’innovazione, quel diverso a tutti i costi che si ricerca nel pop moderno (e che infiniti addusse lutti ai miei coglioni, se mi passate il francesismo), non è affatto un sine qua non. A questo punto la domanda sorge ineluttabile: è quindi buono o cattivo il pop di Hot Cakes? Partendo dal presupposto non contestato che l’innovazione non appartiene ai Darkness (e vi svelo un segreto: non appartiene nemmeno a Bon Iver, ai Muse o agli Editors), i britannici, con quest’album, tentano di risorgere dalle proprie ceneri, essendo andati in fiamme dopo un deludente secondo album coinciso con i problemi di alcool e cocaina sofferti dal barocco e fiammeggiante leader Justin Hawkins, che condusse ad uno scioglimento temporaneo della band. Questa reunion, è quasi scontato, non ha la freschezza e l’immediatezza – mai più ritrovata – del devastante esordio; non ne ha lo humor, non rimane in testa, non ti costringe a fischiettarne i brani sotto la doccia. Lo schiacciante midtempo dell’album non ha la freschezza dell’esordio né è altrettanto memorabile, non ha la ferocia per graffiare quando sarebbe necessario. Nonostante ciò, “Hot Cakes” non è del tutto da buttare, né soffre dei drastici alti e bassi qualitativi che caratterizzavano “One Way Ticket To Hell”; tra gli highlights l’apripista Every Inch Of You e With A Woman. L’unica eccezione all’interno dell’album che riporta ai fasti dell’esordio è una cover glam-metal di Street Spirit (Fade Out) dei Radiohead, in un arrangiamento kitsch che farà rabbrividire un po’ di gente che considera Pitchfork Magazine la bibbia della musica moderna, assolutamente fuori dai margini, caciarona, pacchiana: non a caso i Darkness la eseguivano durante il tour di “Permission To Land”. Sono quelli i Darkness che vorremmo, quelli assolutamente disinteressati – nella composizione e nell’esecuzione dei pezzi – al tour manager, alla casa discografica, alla classifica dei singoli, alle bollette, alla benzina dei furgoni. Ma l’impressione è che, tristemente, quei Darkness non li risentiremo più.

(2012, Wind-Up)

01 Every Inch Of You
02 Nothing’s Gonna Stop Us
03 With A Woman
04 Keep Me Hangin’ On
05 Living Each Day Blind
06 Everybody Have A Good Time
07 She Just A Girl, Eddie
08 Forbidden Love
09 Concrete
10 Street Spirit (Fade Out)
11 Love Is Not The Answer

A cura di Nicola Corsaro