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Marilyn Manson – Heaven Upside Down

Quando si parla di “ritorno alle origini”, di solito, c’è poco da essere ottimisti. Quando a parlarne, poi, è proprio l’artista che quell’album sta per pubblicarlo, allora è quasi certo che si tratterà di un fondo di barile bucato a furia di raschiarlo. Marilyn Manson ha fatto questo con Heaven Upside Down, doveva chiamarlo “SAY10”, doveva pubblicarlo lo scorso San Valentino ed eccolo invece qua con un altro titolo, otto mesi di ritardo e presentazioni altisonanti.

Ritorno alle origini, dice, ritorno ad “Antichrist Superstar” (1996). Ecco, mettendo da parte dichiarazioni come queste, false non tanto perché non aderenti alla realtà quanto perché sarebbe impossibile, oggi, poter bissare concettualmente quel disco, è certo come il decimo lavoro in studio di Manson si discosti innanzitutto dal precedente “The Pale Emperor”. Quello del 2015 era un album così venato di blues da far credere possibile una nuova strada, una seconda fase di carriera per il Reverendo. Dev’essersi sentito bene, Warner, dev’essersi rimesso in forze e deve aver ripreso consapevolezza di ciò che è e di ciò che ha rappresentato, perché “Heaven Upside Down” – e qui aveva ragione, non mentiva – ha abrasioni che in “The Pale Emperor” non c’erano e che a dirla tutta non si trovavano nei suoi dischi da oltre quindici anni (leggasi: da “Holy Wood” del 2000).

È per questo che l’attacco al fulmicotone di Revelation #12 a primo acchito colpisce, perché l’avevamo lasciato crooner malato e lo ritroviamo qui incazzato come una faina. Manson in “Heaven Upside Down” riacquista immediatezza: laddove in “The Pale Emperor” c’era da perderci qualche minuto per assimilare i brani, qui invece l’impatto è immediato, tracce come WE KNOW WHERE YOU FUCKING LIVE e KILL4ME fanno pochissimo per nascondersi, già a partire dal titolo “urlato” scritto in maiuscolo, smascherando immediatamente le intenzioni di Brian Warner.

Più che all’industrial scurissimo di inizio carriera (nella già citata Revelation #12 andiamo indietro fino a “Portrait Of An American Family” del ’94), Manson guarda qui all’appena successivo “Mechanical Animals” (1998), che ha dei chiarissimi rimandi nelle trame sintetiche dei quasi otto minuti di Saturnalia o nella ballad apocalittica Blood Honey, complice la produzione di Tyler Bates che, come già avvenuto su “The Pale Emperor”, c’ha messo molto di suo per dare una rinfrescata al sound di Manson.

Dal punto di vista delle lyrics, il Manson del 2017 per forza di cose non può essere urticante come un tempo, vuoi perché ormai lo conosciamo bene e il tenore delle sue argomentazioni non sorprende più, vuoi perché nel frattempo tanti altri hanno fatto pure meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista), offuscando un po’ il passato provocatorio targato Marilyn Manson. Il canovaccio è sempre lo stesso: fa a pugni con la religione, con la parte più marcia della società americana e con il proliferante ammasso di imbecilli che vede in giro per il globo, raggiungendo il picco – della banalità, ma anche dell’effetto – nel refrain di SAY10, dove mette in piedi uno di quei giochi di parole che l’hanno reso celebre (“You say God and I say SAY10”, dove “say ten” suona tanto “satan”).

Vista la mediocrità di album come “Eat Me, Drink Me” (2007) e “The High End Of Low” (2009), le probabilità che Marilyn Manson si trasformasse in una squallida e stereotipata macchietta di se stesso erano alte. Visti “The Pale Emperor” e adesso “Heaven Upside Down”, invece, possiamo affermare con la stessa forza che Warner non raggiungerà mai più i fasti di un tempo ma che il mestiere non l’ha affatto perso e qualche episodio interessante continuerà sempre a regalarlo.

(2017, Loma Vista)

01 Revelation #12
02 Tattooed In Reverse
03 WE KNOW WHERE YOU FUCKING LIVE
04 SAY10
05 KILL4ME
06 Saturnalia
07 JE$U$ CRI$I$
08 Blood Honey
09 Heaven Upside Down
10 Threats Of Romance

IN BREVE: 3,5/5