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Nadine Shah – Holiday Destination

La copertina di Holiday Destination, a prescindere dalla difficile (almeno a primo acchito) geolocalizzazione, lascia pochi spazi interpretativi su cosa possa riferirsi: un edificio bombardato, quindi conflitti, persone in fuga, accoglienza, necessità d’integrazione e quant’altro. Quello dell’inglese Nadine Shah è solo l’ultimo – in ordine tempo – fra i dischi che negli ultimi mesi hanno trattato, ciascuno a suo modo, la globale crisi dei rifugiati.

La Shah se ne occupa in modo rabbioso, partendo dalla sua esperienza personale di immigrata di seconda generazione (la madre norvegese e il padre pakistano, trasferitisi in Inghilterra) per arrivare a toccare l’attuale panorama internazionale, fatto di serpeggiante paura del diverso, di abuso di termini quali “invasione”, di insensibilità verso realtà lontane migliaia di chilometri ma più vicine di quanto si possa pensare, di classi politiche totalmente incapaci di dare una risposta seria e definitiva al devastante problema. Il punto di vista di Nadine non sembra mai avere pretesa di universalità, ma non è neanche denuncia fine a se stessa: quelle dell’artista inglese sono più che altro sottolineature, di tutte le reazioni errate – tanto fisiche quanto verbali – con cui politicanti e semplici cittadini si accostano alle tematiche trattate.

Musicalmente, la cifra stilistica della Shah si attesta sempre a metà strada fra la PJ Harvey più blueseggiata che ha fatto faville col suo ultimo “The Hope Six Demolition Project” (album assimilabile per approccio a “Holiday Destination”) e le derive arty tanto in voga negli ultimi anni, che alleggeriscono spesso e volentieri passaggi liricamente grevi.

C’è di tutto in quest’album e fermarsi su un’etichetta sarebbe parecchio complicato, perché la trasversalità della Shah la porta in territori post punk ma le fa anche inserire cenni sintetici, fa l’occhiolino all’indie rock easy listening ma ci mette dentro spunti jazzy che scombinano le carte in tavola, usa la chitarra prima come carta vetrata e poi come se si trattasse di un disco funk, a volte con più di un cambio di registro all’interno dello stesso pezzo.

Il risultato è un album che, senza piangersi troppo addosso e senza fare leva sul pietismo, snocciola posizioni politiche nel modo in cui un politico dovrebbe porgersi ma con lo spirito che solo un artista, un musicista può avere e ha storicamente avuto. Terzo ottimo centro in una discografia in crescendo.

(2017, 1965 Records)

01 Place Like This
02 Holiday Destination
03 2016
04 Out The Way
05 Yes Men
06 Evil
07 Ordinary
08 Relief
09 Mother Fighter
10 Jolly Sailor

IN BREVE: 4/5