Home RECENSIONI Squid – Bright Green Field

Squid – Bright Green Field

È indicativo che la Ninja Tune e la Warp Records, due etichette storiche dell’ambiente elettronico, abbiano scelto di puntare su due band giovani dal DNA post punk ma poco incline alle briglie dei generi. La prima ha pubblicato il disco d’esordio dei Black Country, New Road, la seconda quello degli Squid. In entrambi i casi si è scelto di scommettere su un territorio diverso da quello d’elezione: vuoi per una scelta di mercato – il proliferare di band post punk genera meccanismi competitivi volti ad accaparrarsi la next big thing– vuoi per una scelta stilistica ben precisa – l’apertura ad altri generi non così avulsi dal proprio genera possibilità e sinergie – la sfida è servita. La Warp, in particolare, ha messo sotto contratto gli Squid dopo l’EP del 2019 (“Town Centre”), licenziato dalla Speedy Wunderground, dal forte connotato sperimentale.

Oliver Lodge, Louis Borlaise, Arthur Leadbetter, Laurie Nankivell e Anton Pearson vengono da Brighton, terra prospera in ambito musicale, e si muovono lungo il crinale florido del revival post punk. Come tutti, però, provano a dare un tocco di personale rivisitazione dell’inflazionato genere: rispetto all’epicità dei Fontaines D.C., all’asfitticità dei Girl Band, ai virtuosismi dei Black Midi e all’attitudine muscolare degli Idles – per citarne alcuni – gli Squid propongono un concentrato di art punk schizofrenico che non dà punti di riferimento. I saliscendi ritmici e melodici, improvvisi ma costanti, sono la cifra stilistica degli Squid. I pezzi sono microcosmi sonori che si intersecano continuamente: scelta molto ambiziosa che non sempre dona un’uniforme logicità ai brani.

Il titolo del disco, Bright Green Field, è ispirato ad un racconto distopico della scrittrice Anna Kavan: il campo verde e luminoso ha sembianze antropomorfe e minaccia di finire l’umanità avvolgendola in una grande tomba verde. La copertina – che sembra anche un po’ richiamare gli sconfinati prati della campagna circostante i luoghi di Glastonbury – ne ripropone fedelmente l’idea. In cabina di regia l’apporto di Dan Carey – specialista in materia revival post punk per aver prodotto Fontaines D.C. e Black Midi – dà equilibrio al magma scrittorio del gruppo di Brighton.

Il primo brano è una fluttuante intro strumentale che raccorda diversi suoni campionati dalla vita reale: dai suoni di campane al gorgoglio più autentico della natura. G.S.K. è l’acronimo di un’azienda farmaceutica inglese, la GlaxoSmithKline, il cui edificio principale è preso come soggetto del testo del pezzo. Il brano ha un’anima jazzy il cui nucleo viene sabotato dalle inattese fiammate chitarristiche. Narrator, uno dei singoli lanciati prima dell’uscita del disco, è un brano ambizioso: in otto minuti circa – ispirandosi al film “Long Day’s Journey Into Night” del cinese Gan Bi – cerca di raccontare la storia di un uomo che nel cercare di ricordare degli eventi capitatigli privilegia una ricostruzione che pone al centro sé e il proprio ego; una voce femminile – nella fattispecie quella di Martha Skye Murphy – fa da contraltare riequilibrando la narrazione dei fatti. Il canovaccio sonoro esemplifica lo stile vorticoso e nervoso che si concretizza nei continui cambi situazionali: chitarre groovose e accelerazioni ritmiche progressive accompagnano per tutto il corso del brano fino alla finale esplosione di decibel.

Se Paddling non si discosta dalla struttura nevrotica fin ora proposta, Documentary Filmmaker si dimostra essere una variazione sul tema: le acide linee sonore dei fiati si amalgamano all’incedere trascinato del cantato di Oliver Lodge che accompagna il flusso sonoro un pelino meno nevrotico dei pezzi precedenti. Peel St. è uno schiaffo dance punk in pieno volto non manchevole di cambi di registro ritmico; mentre Global Groove si apre con una nenia oscura che lascia il passo a divagazioni sonore di chiara matrice kraut. Il brano finale è forse il momento migliore del disco: Pamphlets ha una ritmica sincopata che sorregge il pezzo in tutte le situazioni, esempio della cangiante espressività art punk del gruppo di Brighton.

Con “Bright Green Field” gli Squid ci dicono che sperimentare con suoni ruvidi e imprevedibili può essere sinonimo di progressività. È un buon disco che, sebbene non sempre a fuoco, lascia intravedere sprazzi di futuro a cui fornire una traiettoria più stabile e continua.

(2021, Warp)

01 Resolution Square
02 G.S.K.
03 Narrator
04 Boy Racers
05 Paddling
06 Documentary Filmmaker
07 2010
08 The Flyover
09 Peel St.
10 Global Groove
11 Pamphlets

IN BREVE: 3,5/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.