Home RECENSIONI Steven Wilson – The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)

Steven Wilson – The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)

Polistrumentista autodidatta, produttore, coinvolto in innumerevoli progetti paralleli ma, soprattutto, fruitore di musica. Per capire come si arriva a questo The Raven That Refused To Sing (And Other Stories), terzo album solista di Steven Wilson, bisogna tornare indietro. C’erano una volta – e ci sono ancora – i Porcupine Tree, gruppo di ispirazione floydiana nato per scherzo. I primi album sono così sperimentali da rasentare l’accostamento – operando un dovuto distinguo tra i generi – alle embrionali sperimentazioni dei Kraftwerk. L’invito è di esplorare gli album dei Porcupine Tree uno dopo l’altro e assaporarne gli smussamenti, poi di immergersi in ognuno dei progetti paralleli per capire che il nostro non sarà il Re Mida della musica – o forse sì – ma ha un suono riconoscibile, creato ascolto dopo ascolto, strato dopo strato.

In questo album riconosciamo gli strati in maniera cristallina: il groove di Donna Summer, le sperimentazioni dei Porcupine Tree, le psichedeliche citazioni degli Opeth di “Damnation” (ma anche a tratti di “Ghost Reveries” e “Heritage”, ma del resto le ispirazioni sono comuni, tant’è che è nata una collaborazione con Mikael Akerfeldt sfociata negli Storm Corrosion) e infine la psichedelia dei Pink Floyd e dei Procol Harum, il progressive dei King Crimson (del resto collabora, tra i tanti, con Robert Fripp), degli Yes, dei Jethro Tull (ha curato il mixaggio di “Thick As A Brick 2” e il restauro di “Aqualung” e “Thick As A Brick”), dei Marillion (coi quali collabora) e Alan Parsons. Quest’ultimo ha inoltre prodotto l’album.

Facciamo un passo avanti: Wilson si è attorniato di musicisti di tutto rispetto ed è comprensibile pensare che sia estremamente facile produrre un album del genere se lavori con Theo Travis, Marco Minneman e puoi usufruire di un guitar solo da Alan Parsons in persona. Però non basta avere una macchina di grossa cilindrata per essere dei bravi piloti. Luminol è un ottimo pezzo d’apertura, nonostante i 12 minuti di lunghezza. Ma non fatevi spaventare, l’introduzione operata da batteria e basso alla Crosby, Stills & Nash si innesta perfettamente negli innumerevoli cambi di tono e in tanti di quegli stacchi netti che vi sembrerà di ascoltare tre canzoni differenti senza esservi stufati un attimo. Complici il mellotron, l’Hammond, le chitarre e i fiati, già nei primi 3 minuti potreste avere il riassunto di quel che vi aspetta. “Luminol” è la storia di un musicista di strada che si trova a suonare sempre nello stesso punto. Dovesse morire domani ritrovereste il suo fantasma a continuare il suo lavoro.

Il maestoso finale ci prende per mano e ci accompagna verso Drive Home. L’atmosfera cambia, la storia cambia: niente fronzoli, stavolta il basso e la batteria sono solo un accompagnamento per la voce e il piano. Una carezza di 7 minuti, un abbraccio che ammicca a “Damnation” degli Opeth con un aperto omaggio floydiano verso il finale, dove chitarra e batteria vanno in netto contrasto con la voce. Stiamo viaggiando in macchina con una coppia finché lei sparisce, improvvisamente e misteriosamente. Ecco un altro fantasma. The Holy Drinker è una delle potenti cavalcate del disco. Stavolta ci spostiamo verso gli Emerson, Lake & Palmer, anche se il giro di basso ricorda molto lo stile di Martin Mendez (Opeth), piacevole introduzione psichedelica di ampio respiro sulle contraddizioni di un uomo molto, troppo, religioso. Uno di quelli con l’indice puntato verso tutti che vede il vizio e il peccato dappertutto. Peccato sia un alcolista e il vizio lo trascinerà all’inferno per via di una scommessa perduta col diavolo in persona. Il guitar solo è a cura di Alan Parsons e si sente.

The Pin Drop continua con la sensazione della possibilità di respirare a pieni polmoni dopo essere stati ricurvi a lungo introdotta da “The Holy Drinker”. Qui Theo Travis dona il meglio di sé e la chitarra segue perfettamente la voce, sia quando la accompagna, sia quando la introduce. Il brio della musica e i cori onirici sono in contrapposizione con la voce del fantasma di una donna che narra dell’inerzia di un matrimonio basato né sull’amore né sull’empatia. E’ stata uccisa in un raptus di follia del marito, raptus causato dal suono di uno spillo che cade per terra. The Watchmaker è la seconda canzone basata sul tema delle relazioni fallimentari, 50 anni di matrimonio che è possibile riassumere in “I never really loved you but I’ll miss you anyway”. Ancora una volta un fantasma: quello di lei che ritorna per tenergli compagnia, suo malgrado. Nuovamente le contrapposizioni: alla staticità e al comfort narrati troviamo una ballata in puro stile wilsoniano che si dipana in vari movimenti nei suoi 11 minuti.

Un’introduzione semplice, seguita da cori e pianoforte – stavolta non onirici bensì fiabeschi – e un finale groove dove tutti gli strumenti si rincorrono, si intrecciano attraverso loop in progressione. Finale che richiama la prima traccia dell’album, gli ultimi Porcupine Tree e gli ultimi Opeth. La parte finale ci rivela che l’onirico è un incubo e la fiaba è quella di Barbablu senza il lieto fine. Si arriva così alla fine dell’album con la title track. Un pezzo molto intimo, voce e pianoforte, contornati dai leggeri tocchi di tutti gli altri strumenti amalgamati in un leggero crescendo. In linea con la tematica dell’album troviamo la traccia – forse – più lineare. Un uomo anziano convinto che il fantasma della sorella perduta da bambino sia tornato sotto forma di corvo per accompagnarlo nel passaggio finale. Se riuscirà a farlo cantare avrà quindi la certezza dell’identità dell’animale. Per quel che possiamo osservare, il corvo ha cantato.

(2013, Kscope)

01 Luminol
02 Drive Home
03 The Holy Drinker
04 The Pin Drop
05 The Watchmaker
06 The Raven That Refused To Sing