Home RECENSIONI The Good, The Bad & The Queen – Merrie Land

The Good, The Bad & The Queen – Merrie Land

Undici come gli anni trascorsi dalla prima uscita discografica di questo ensemble di pezzi da novanta. Undici come le tracce di questo disco, inatteso, improvviso ma con una grande urgenza comunicativa. Sono passati due anni e mezzo (quasi) dal referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (Brexit) e Damon Albarn, che quel 23 Giugno si preparava per suonare il giorno successivo al Glastonbury con la “Orchestra of Syrian Musicians”, non ha mai nascosto il suo disappunto verso gli esiti della consultazione popolare. Ma facciamo un passo indietro: è il Gennaio del 2007 quando Damon Albarn (Blur, Gorillaz), Paul Simonon (Clash), Simon Tong (Verve) e Tony Allen (Africa 70) con Danger Mouse in cabina di regia, pubblicano un disco dal titolo omonimo a quello della band – o forse il contrario! – destinato a essere una mosca bianca, un episodio una tantum dettato, anche qui, da un’urgenza espressiva. Fortunatamente non è stato così. Se nel 2007 è stata la bolla che ha generato la crisi economica ad ispirare il frontman dei Blur, qui, come già anticipato, è la Brexit.

I quattro hanno feeling e non si fatica a scorgerlo, è un amalgama convincente quello che si crea tra la scrittura di Albarn e le risapute capacità di performing degli altri musicisti. Questo tanto nel primo lavoro quanto in questo Merrie Land, che in comune con il suo predecessore ha solo l’urgenza di fornire il proprio punto di vista sul presente e di darlo da un’angolazione anglosassone.

Il cambio della produzione è un primo fattore di diversità: la plasticosità dei suoni avuta con Danger Mouse lascia il passo a una cifra sonora che predilige soffermarsi maggiormente sul tessuto musicale acustico, una ricercatezza che ha un nome ed un cognome: Tony Visconti. I due singoli che hanno anticipato il disco, la title track Merrie Land e Gun To The Head, ci danno il saggio dell’intero lavoro: toni dimessi che non cercano di stupire l’ascoltatore con trovate sonore accattivanti, ma che contribuiscono a costruire un’enfatica architettura sonora su cui adagiare il cantato di Albarn.

Gli archi, i fiati, il basso di Simonon, i ritmi trascinati e sincopati della batteria di Allen – ad esempio nell’intro di Nineteen Seventeen – sono i cooprotagonisti di queste undici diapositive sul Regno Unito post-Brexit. Qui Albarn veste i panni del bardo e ci racconta una storia servendosi di una scrittura sibillina che attinge anche alla letteratura – Introduction è la riscrittura di un estratto del prologo dei “Canterbury Tales” di Geoffrey Chaucer.

Chi si aspettava un disco immediato e diretto nei suoni e nella scrittura rimarrà deluso, perché è un lavoro che deve macinare diversi ascolti prima di capirne e apprezzarne lo spirito: ossia quello di un conflitto interiore tra l’amore viscerale di un britannico (Damon Albarn) per le proprie radici e la delusione e la rabbia per le scelte del suo popolo.

(2018, Studio 13)

01 Introduction
02 Merrie Land
03 Gun To The Head
04 Nineteen Seventeen
05 The Great Fire
06 Lady Boston
07 Drifters & Trawlers
08 The Truce Of Twilight
09 Ribbons
10 The Last Man To Leave
11 The Poison Tree

IN BREVE: 3,5/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.