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Ty Segall – S/T

C’è stato un tempo in cui era James Brown l’hardest working man in show business. Un po’ dopo, era il prolifico folletto di Minneapolis, Minnesota a produrre quantità abnormi di dischi ogni anno. Uomini particolari, che lottavano contro un’America bigotta, razzista, difficile. Avevano qualcosa da dimostrare, e avevano voglia di mostrare al mondo il loro straordinario valore.

Ty è un ragazzo di Laguna Beach, California. Bianco, biondo, occhi azzurri, Ty Segall non si sta ribellando contro il razzismo o il bigottismo americano/occidentale, no: Ty si ribella contro quell’America rappresentata nel reality che ha reso famosa la sua cittadina, una patetica, semi-preparata sceneggiata piena di ragazzi palestrati e lampadati che ci raccontano le loro storie di ricchezza, scopatine e ubriacature del sabato sera. Un’America che considera “losers” (lo diceva Beck più di 20 anni fa) quelli che imbracciano una chitarra e vogliono produrre musica, musica rock, per l’esattezza. Anche questa un’America difficile, non c’è dubbio.

Ty ha prodotto, a meno di 30 anni, qualcosa come 18 album (perdonateci se il conto è sbagliato, è veramente difficile tenere il passo) perché ha molto da dire, molto da dimostrare, ha quel fervore creativo di chi è in missione e, dopo 9 anni, propone nuovamente un album siglato solo e solamente con il suo nome, come si faceva un tempo per il proprio esordio. Del resto, dopo una discreta attenzione per il precedente, ottimo “Emotional Mugger” e la decisione di confermare gran parte di quella band (Emmett Kelly, Mikal Cronin, Charles Moothart) “a tempo indeterminato”, sembra quasi che Ty stia tirando le somme di quanto fatto sinora.

Sembra, difatti, una summa dello scibile segalliano, che non può che cominciare con Break A Guitar, glam rock energico non molto lontano dal lavoro precedente, e che prosegue con Freedom, garage rock che richiama gli esordi. Ma quegli esordi sono limati, perfezionati da anni di duro lavoro e sottolineati per prima cosa dall’eccellente produzione di uno Steve Albini che dopo più di 35 anni di carriera ci tiene ancora a mostrare che il titolo di “leggenda” è più che meritato e dalla scelta di registrare dal vivo, senza sovraincisioni, come si compete a ogni rock band che si rispetti.

Evoca – e ci perdonerete il sacrilegio – anche Lennon (aiutato dalla somiglianza vocale) sia nella ballata folkeggiante Talkin’ che nell’eccellente The Only One – sabbathiana quanto basta, ma del resto non sono segrete le influenze beatlesiane dei Black Sabbath – e si lancia, complice la live band, in una jam psichedelica di dieci minuti (Warm Hands).

La cosa impressionante di Ty è come, nonostante sia così prolifico, la qualità, l’asticella, si stia sempre più alzando. Questo è uno dei suoi migliori album, se non il migliore (a pari merito con la collaborazione coi White Fence del 2012, “Hair”) e, speriamo, potrà invitare una quantità di pubblico sempre più ampia a interessarsi al musicista californiano. A dispetto di un’apparente ingenuità e della giovane età (29 anni), Ty ha ammaestrato la vile bestia del rock’n’roll, ne ha fatto propri i segreti e, se non sarà lui a salvare il rock, vogliamo scommettere che perlomeno porterà un discreto numero di persone ad interessarsene di nuovo.

(2017, Drag City)

01 Break A Guitar
02 Freedom
03 Warm Hands (Freedom Returned)
04 Talkin’
05 The Only One
06 Thank You Mr. K
07 Orange Color Queen
08 Papers
09 Take Care (To Comb Your Hair)
10 Untitled

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.