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Ulrika Spacek – The Album Paranoia

thealbumparanoiaTra le stratificazioni chitarristiche di The Album Paranoia si possono contare le numerose ispirazioni di cui le dieci tracce d’esordio degli Ulrika Spacek sono imbevute. Si tratta della band nata dall’incontro tra Rhys Edwards e Rhys Williams, vecchi amici berlinesi emigrati a Homerton, Londra, dove l’album è stato composto e poi registrato con la partecipazione di altri tre musicisti.

In effetti già in questa transizione è possibile scorgere una delle premesse essenziali allo sviluppo del sound del gruppo, ossia la sua caratteristica elasticità, come di un contenitore atto a ricevere determinati fluidi e a lasciarsi modificare da alcuni di essi. Del resto cos’è Berlino se non un foglio bianco – o, più che bianco, sbiancato, coi vecchi tratti a matita tragicamente cancellati un po’ dovunque – su cui si è ripreso a scrivere in forme diverse, secondo stili innovativi e moderni? Oswald Mathias Ungers negli anni Sessanta parlava di “una situazione unica di una città che è completamente isolata e completamente artificiale, e che perciò presenta una condizione nuova”. E questo isolamento, che per i due artisti è il trampolino di lancio compositivo, va considerato innanzitutto una nota fisica, quasi geografica, perché corrisponde al suo crescere sospesa tra mondi diversi, ponte di linguaggi e commistione di sonorità.

Così nel debutto degli Ulrika Spacek si possono ritrovare tracce del kraut rock patrio, una certa geometria ritmica derivabile da questo e dalle di poco successive germinazioni post punk, ed anche il fine culto del rumore e la sedimentazione della voce tra i lastroni sonori, affini allo shoegaze e al noise. In ultimo, ma non ultimo, uno sguardo devoto ai giganti Radiohead, quasi virtuali numi tutelari. Probabile che da essi ereditino la malinconia e la tendenza alienante comune a tutti i brani dell’album, quasi un marchio di fabbrica della produzione del periodo di “OK Computer”.

Si parte col fuzz evocativo di I Don’t Know ed è già complicità tra i flanger tremolanti, le altre lisergiche corde e la melodia vocale che si distende tra esse. Un inizio in maggiore, che si incupisce nel ritornello di Porcelain e nella breve parentesi strumentale di Circa 1954, dove gli accordi si susseguono come perentorie affermazioni provenienti da un passato non troppo lontano. Sembra ormai impossibile risalire e salvarsi dalla china del delirio, perciò si procede, ad un ritmo sempre maggiore, con Strawberry Glue, tra la sua strofa straniante e il precipitoso ritornello. Beta Male odora di acciaio, sembra nascere nel mezzo di una catena di montaggio e lasciare solo due minuti a un canto umano sofferto e per nulla innocente, per poi ripiombare nel più grigio automatismo. Le tinte si fanno definitivamente buie con Nk, dove accordi profondi come le voragini della coscienza rievocano foschi ricordi, immagini impossibili da rimuovere nonostante la breve ripresa centrale. Un respiro di sollievo è garantito dagli accordi tenui di Ultra Vivid, il brano più pop dell’album, certo, ma non il più banale, in cui ancora una volta le chitarre si incrociano mirabilmente come fili di ragnatela, insieme leggere e stabili, e lasciano presagire una rinascita al minuto tre.

Con She’s A Cult gli Spacek ritornano a menar fendenti – del resto è il primo singolo – e a richiamare lamenti e versi bionici di radioheadiana memoria. Ma le parentesi della citazione sono appena aperte. In There’s A Little Passing Cloud In You una voce sospesa tra Thom Yorke e Morrissey galleggia con moto su ritmiche à la Johnny Marr ed ancora una volta la coda del brano lascia spazio alla rivelazione: accordi stanchi e dolenti vengono fuori da poche note accennate dopo l’ultimo ritornello. Non c’è miglior prologo di questo ad Airportism, languida lirica che senza fraintendimenti richiama il quintetto di Oxford, ma con rispetto e proprietà dei mezzi espressivi, rendendo sfolgoranti nel ricordo le partenze e i ritorni della nostra esistenza, quasi come se gli Ulrika Spacek volessero farci ammalare di questi. Del resto non c’è modo migliore di suscitare paranoie che chiedere in prestito a Jonny Greenwood e soci gli strumenti necessari, androidi deliranti compresi.

(2016, Tough Love)

01 I Don’t Know
02 Porcelain
03 Circa 1954
04 Strawberry Glue
05 Beta Male
06 Nk
07 Ultra Vivid
08 She’s A Cult
09 There’s A Little Passing Cloud In You
10 Airportism

IN BREVE: 3,5/5

Assediato da un’infaticabile pigrizia, coltiva aspirazioni a iosa, tra cui scrivere, cantare e diventare medico. Sa di essere alla ricerca di un modo onesto e grande di vivere da sempre, almeno da quanto ricordi. Il suo cuore batte un tempo rock con un’extrasistole alternative inguaribile. Nelle vene torbido sangue blues.