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University – McCartney, It’ll Be OK

C’è qualcosa di primordiale nella musica degli University, qualcosa che a intervalli irregolari riesce ad essere tanto respingente quanto attrattivo. Ed è molto probabile che Zak Bowker (voce e chitarra), Joel Smith (batteria) ed Ewan Barton (basso), cui va aggiunto Eddie, una sorta di mascotte della band, quest’effetto l’abbiano appositamente cercato e voluto, un po’ per dare un compimento pratico ai loro ascolti estremi, un po’ come reazione al contesto in cui il loro incontro ha preso forma. Ovvero Crewe, un’anonima cittadina spersa lì da qualche parte in Inghilterra, lontana da ogni svago che dei ragazzi della loro età dovrebbero avere, lontano da dove le cose accadono, specie in ambito musicale, lontano e basta.

E così dopo l’EP “Title Track” del 2023 eccoli adesso con questo McCartney, It’ll Be OK, il loro esordio sulla lunga distanza pubblicato anch’esso su Transgressive Records, un’etichetta discografica che quando si parla di rumore sa sempre il fatto suo. Anche stavolta infatti ha fatto centro, sostenendo un progetto che se da un lato si lascia inghiottire da elucubrazioni intrise di un disordine urticante (così tanto da apparire respingente, come dicevamo poco sopra), dall’altro prende quel disordine e ne rimette insieme le varie parti tirando fuori qualcosa di molto interessante (che è l’altra faccia della medaglia, quella attrattiva).

Che “McCartney, It’ll Be OK” sia un disco selvaggio per concezione viene palesato immediatamente con il singolo Massive Twenty One Pilots Tattoo, che apre anche la tracklist: cinque minuti di un frastuono che a tratti prende la tangente jazzata, ma non nel modo matematico e pulito di band come i Black Midi, tutt’altro. Gli University sono totale assenza di calcolo, anche quando questo avrebbe dovuto o potuto esserci, una cifra stilistica chiara e lampante. E a proposito di derive, in un pezzo come Gorilla Panic (ma anche in svariati altri passaggi all’interno del disco) vengono fuori gli ascolti emo-core della band, in un pastone che guarda a band come Jawbreaker o Mineral ma filtrato dal setaccio lurido degli University.

Hustler’s Metamorphosis è un noise astruso che tira in ballo il maestro Steve Albini e le sue molteplici incarnazioni sonore, mentre Diamond Song è una catastrofica discesa negli inferi infarcita da suonini da videogioco (che trovano il loro culmine nella conclusiva History Of Iron Maiden Pt. 5), giusto per aggiungere altra carne sul fuoco divampante della band. E poi c’è History Of Iron Maiden Pt. 1, che in dieci minuti combina un finimondo, un po’ la deformata cartina di tornasole dell’intero disco e degli University, che giocano a rimpiattino con se stessi, si sfidano a superare i limiti propri e di chi li sta ascoltando. La stranezza di questa band è destinata a far parlare di sé, potete scommetterci.

2025 | Transgressive

IN BREVE: 3,5/5