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Il trip hop esce da Bristol con Blue Lines, l’esordio dei Massive Attack

Città marinara, quindi per definizione crocevia di incontri e contaminazioni, Bristol aveva da sempre avuto una fervente scena musicale. Nulla di estremamente “popolare”, a voler banalizzare, ma tantissime realtà indipendenti, indecifrabili mistioni tra generi e correnti a cavallo tra i continenti. Nel 1991 − ma in realtà già da qualche anno, grazie proprio a collettivi come il Wild Bunch − Bristol entra definitivamente nel gotha delle città che, ciascuna per motivazioni diverse, hanno fatto la storia della musica. E lo fa grazie a tre ragazzi (Grant Marshall aka Daddy G, Andrew Vowles aka Mushroom e Robert Del Naja aka 3D) che, venuti fuori proprio dalle realtà dei collettivi e dei sound system, danno vita a qualcosa di mai sentito prima. O meglio, tante cose già sentite ma messe insieme per la prima volta, con una classe che era unica in quel momento e lo è ancora oggi.

L’indole punk, l’hip hop che andava per la maggiore in città, il reggae, l’r’n’b e una miriade di altra roba erano il pane quotidiano del collettivo Wild Bunch, all’interno del quale spiccavano proprio quei tre di cui sopra, ormai DJ di punta degli ambienti underground di Bristol. Il passo seguente arriva a stretto giro e, pur mantenendo l’approccio da collettivo aperto che li accompagnava da sempre, i tre decidono di mettersi insieme per fare musica sotto la stessa ragione sociale: Massive Attack. Dopo un EP e qualche altro pezzo sparso arriva così Blue Lines, l’esordio di quella che a quel punto poteva essere considerata una vera e propria band.

Come si diceva, le porte dei Massive Attack erano − e lo sono tutt’ora − sempre aperte a chiunque potesse dare un’ulteriore spinta alle loro produzioni, così nel debutto sulla lunga distanza ci sono la cantante black Shara Nelson, il concittadino rapper Adrian Thaws aka Tricky, la leggenda del reggae giamaicano Horace Andy e svariate altre collaborazioni e suggestioni. Il risultato è una sorta di hip hop al rallentatore, una flebile elettronica dall’afflato ambient su cui s’innestano soul, dub, r’n’b, densi fumi clubbing e voci da sogno cui il magazine Mixmag, un giorno, affibbia l’etichetta definitiva: trip hop. Un termine nuovo per qualcosa che non s’era mai sentita e che, proprio grazie a quella definizione, inizia a vivere di vita propria senza dover per forza dipendere da assonanze e similitudini, dando accecante lustro a un’intera scena che inizia così a sfuggire dai confini industriali di Bristol.

“Blue Lines” esplode come una di quelle bombe che, proprio in quei mesi, si abbattevano su Baghdad durante la Guerra del Golfo, ma anziché lasciare alle sue spalle morte e distruzione porta colori e sfumature, viaggi mentali e sotterranei senza uscite di sicurezza. L’incrocio di voci e i bassi pulsanti del primo singolo Daydreaming sono solo il primo assaggio di un’imponente produzione in cui a farla da padroni sono i campionamenti, decine, centinaia di campionamenti grazie ai quali dal “vecchio” nasce il “nuovo” in un modo “nuovo”: il reggae finalmente elettronico di One Love affidato a Horace Andy; il dub della title track in cui c’è lo zampino di Tricky; il soul della cover Be Thankful For What You’ve Got in quota Tony Bryan; il dirompente mischione di hip hop e dub di Five Man Army in cui si alternano Andy, Daddy G, Mushroom e 3D; il soul più classico di Lately e il volo che spicca Hymn Of The Big Wheel, in cui il maestro Horace Andy dà ennessima prova della sua bravura. E poi la voce pulita e carica di pathos di Shara Nelson, vero tratto distintivo del disco, che devasta i singoli Safe From Harm (jazzata e dal refrain ipnotico) e Unfinished Sympathy (con il suo iconico groove orchestrale).

Da lì in poi niente sarebbe stato più lo stesso, in primis per la storia della musica che conosce con “Blue Lines” un nuovo corso; ovviamente per i Massive Attack, che entrano di diritto nella ristretta cerchia dei nomi più richiesti − anche in ambito mainstream − per la realizzazione di remix e basi; ma anche per l’intera loro città di provenienza, per quel “Bristol sound” (a testimonianza dell’indissolubile corrispondenza tra quel suono e il posto in cui era nato e s’era evoluto) su cui si sarebbero mossi abilmente altri pezzi da novanta come lo stesso Tricky o le leggende Portishead.