
Avevo poco più di trent’anni quando uscì Washing Machine, nel 1995. Ricordo bene la delusione per il disco precedente, “Experimental Jet Set, Trash And No Star” (1994): non mi prese, non riuscivo a farmelo piacere, ed era una sensazione strana, quasi di tradimento, perché fino ad allora i Sonic Youth mi avevano accompagnata con quella loro miscela di rumore e libertà che mi faceva sentire parte di un mondo diverso. Continuai ad ascoltarlo nella speranza di ricredermi, ma niente.
Con “Washing Machine”, invece, fu subito amore. Mi sembrò un ritorno alla vita, come quando incontri di nuovo un vecchio amico dopo un periodo di silenzio e scopri che il legame non si è spezzato, si è solo trasformato. Certo, non erano più la “gioventù” del nome, e forse ne erano consapevoli: la leggenda accumulata sulle loro spalle rischiava di schiacciarli, ma loro seppero affrontarla con coraggio, cercando nuove strade senza rinnegare se stessi.
La title track è ancora oggi, per me, una piccola epifania. Kim Gordon al microfono non canta per piacere, urla, recita, trasforma la voce in un corpo che ti attraversa. All’inizio lotta con le chitarre, poi resta sospesa sul basso e sulla batteria, che sembrano quasi rifiutarsi di darle appoggio. E all’improvviso, quelle chitarre che calano dal cielo: un momento di pura grazia. Mi ricordo la prima volta che l’ascoltai, una sera d’estate: ebbi la sensazione che il mondo si fosse fermato, e che quella musica mi stesse portando altrove, in un campo aperto, sotto un cielo pieno di visioni.
La parte finale, con quel monologo surreale della moneta e della lavatrice, mi fece sorridere e tremare insieme. Era assurdo e poetico, quotidiano e cosmico. Forse è questo che i Sonic Youth hanno saputo fare meglio di chiunque altro: prendere il rumore e trasformarlo in rivelazione, trasformare il banale in mito. E quando alla fine le chitarre cominciano a fondersi, a esplodere, a sciogliersi come lava, senti che non è solo una canzone: è un’esperienza.
Riascoltandolo oggi, a sessant’anni suonati, penso che “Washing Machine” sia stato l’ultimo disco davvero corale dei Sonic Youth, l’ultimo in cui li sento tutti insieme in perfetto equilibrio, ancora capaci di creare canzoni che restano incise nella memoria. Dopo ci sono stati altri bei momenti, certo, ma questo album conserva un’aura particolare: è il ponte tra la giovinezza e la maturità, tra la furia e la consapevolezza. Forse è anche per questo che lo sento vicino. Perché, come loro allora, anch’io vivo il passaggio tra ciò che ero e ciò che sono. E in quella voce di Kim Gordon che urla, che racconta, che sogna, mi riconosco ancora.


