Home EXTRA ANNIVERSARI The Smiths: 35 anni di The Queen Is Dead

The Smiths: 35 anni di The Queen Is Dead

“La regina è morta”, una provocazione più alta perfino rispetto a quelle agognate dai Sex Pistols. Chi si sarebbe potuto permettere se non quella penna tagliente di Morrissey? Sebbene l’idea iniziale ancor più audace fosse “Margaret On The Guillotine”, invettiva indirizzata chiaramente all’allora premier britannica Margaret Thatcher, l’artista optò poi per il titolo di un racconto dello scrittore americano Hubert Selby. È assurdo pensare che chi ha scritto i brani di un disco come The Queen Is Dead sia riuscito a farsi scaricare da ogni casa discografica possibile… O forse no. In fondo il vecchio Moz ha sempre messo ben in chiaro fin dalle sue prime liriche di “non essere un cane in catene”.

La sua ultima trovata risale a fine Maggio, quando ha affermato di aver pronto un nuovo lavoro da solista, “Bonfire Of Teenagers”, di cui ha anche svelato tracklist e copertina, esprimendo la decisione di metterlo all’asta, alla migliore (o alla peggiore) etichetta offerente. Tra mille contraddizioni, Morrissey di cazzate ne ha sparate a bizzeffe in questi anni: ad oggi è molto più facile che si parli di una sua spiccata o del suo vittimismo, anziché della sua musica, e i tempi di quella meraviglia che fu il terzo album degli Smiths sembrano solo un lontanissimo ricordo.

La band raggiunse il suo apice grazie alle eccelse doti compositive del leggero ed estroverso Johnny Marr, Andy Rourke e Mike Joyce dietro le quinte, con quel sound che intercettava influenze tra Velvet Underground, Stooges, Television e Rolling Stones e incorporava nei suoi testi i gradi più elevati e fini del desiderio e dell’umorismo da forca, ispirandosi all’oscurità di New York Dolls e The Cramps, e ad artiste sixties come Marianne Faithfull e Sandie Shaw. L’artwork delle copertine aveva sempre un posto di rilievo nella cornice estetica degli Smiths: scelto solitamente da riviste o fotogrammi di vecchi film che ritraevano icone della cultura pop o del cinema, come in questo caso, dove ad essere immortalato era Alain Delon in una scena del noir “Il ribelle di Algeri”, era anch’esso curato da Moz e dal suo assistente Jo Slee.

Il disco si apre con il campionamento di “Take Me Back To Dear Old Blighty”, vecchia canzone dell’esercito inglese, seguito dalle rullate di batteria del feroce attacco alla monarchia di The Queen Is Dead, passando poi ai toni risentiti e al contempo parodici e scanzonati di Frankly, Mr. Shankly, dedicata al boss della Rough Trade Geoff Travis, colpevole d’incompetenza per non riuscire a soddisfare le ambizioni della band. La distanza dall’altro, la solitudine e il senso d’appartenenza si traducono nel lamento infantile e funereo di I Know It’s Over e nell’altrettanto emblematica Never Had No One Ever. Dovunque ci sia Morrissey c’è contraddizione, il suo infinito sapere letterario e le sue doti di songwriter non gli hanno evitato l’errore di spelling nel titolo di Cemetry Gates, breve traccia colorata dalla chitarra jangle di Marr e disseminata di ironia e ricordi legati alle visite del cantante al Southern Cemetery di Manchester.

Il momento più atteso è quello della stoccata capolavoro di Bigmouth Strikes Again, con i suoi giri di chitarra indimenticabili e la seconda voce canzonatoria ottenuta grazie all’uso di un armonizzatore, che vede Morrissey trasformarsi in un’incompresa Giovanna D’Arco, seguito da un altro pezzo decisamente Moz-biografico, The Boy With The Thorn In His Side, dove la cosiddetta spina nel fianco è l’industria musicale e chiunque non abbia mai dato importanza alle sue parole. Una presa in giro nei confronti della Chiesa non poteva mancare e ci viene offerta dalla divertente immagine di Vicar In A Tutu, nella quale un ladro nascosto sul tetto di una chiesa vede un prete in tutù danzare tra i fedeli che lo “ringraziano” a suon di offerte per lo spettacolo.

Canzone simbolo della band è sicuramente There Is A Light That Never Goes Out, tra le più alte forme d’amore (non apertamente dichiarato) e frustrazione (sempre e comunque presente ed espressa a dovere), intrisa del solito umorismo funebre, che vede Moz aspirare ad una morte “piacevole” a mezzo di un “double-decker bus” o un “ten-tonne truck” nel momento più gioioso di tutti, ovvero dopo aver trovato l’amore di cui avrebbe avuto bisogno. L’apparentemente sciocca, come la definì Marr quando si ritrovò il testo tra le mani per la prima volta, Some Girls Are Bigger Than Others mette in piazza il pensiero più scontato del mondo nei confronti dell’altro sesso, a detta del cantante ignorato da lui per anni, concludendosi con quel “Send me the pillow / The one that you dream on / And I’ll send you mine”,verso parzialmente “rubato” a Johnny Tillotson, che esprime un desiderio segreto nei confronti di qualcuno.

Tra dualismi, insinuazioni di sorta su significati più o meno specifici delle singole tracce, dotate di un potere tale da permettere a chiunque di identificarsi e riconoscersi nella maggior parte di esse, “The Queen Is Dead” rappresenta la regina dell’intera produzione degli Smiths (seppur perfetta nella sua totalità perfino nelle singole b-side), lo spaccato di una generazione di giovani della working class del Nord dell’Inghilterra che ha ispirato tanti gruppi di successo e che ancora oggi stupisce e ammalia ad ogni ascolto.

DATA D’USCITA: 16 Giugno 1986
ETICHETTA: Rough Trade

Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.