Home INTERVISTE Baustelle: «La Malavita metropolitana»

Baustelle: «La Malavita metropolitana»

Ancora qualche giro e le lancette dell’orologio segneranno l’una di notte. I Baustelle hanno da poco concluso la loro esibizione catanese. Dopo i soliti autografi e le foto ricordo di rito, mentre il resto della band toscana si concede un attimo di relax tra sigarette e birra, Francesco Bianconi ci raggiunge per scambiare quattro chicchere con noi. La location è molto boheme: accovacciati sulle scale che conducono al piano superiore del locale che ha ospitato il concerto tentiamo di rapire la sua voce, ma la battaglia che ci vede contrapposti ai decibel del dj set successivo è ardua. Alla fine Il Cibicida ha avuto la meglio. Buona lettura.

Da una realtà discografica indipendente ad una major… che cosa è cambiato a livello di organizzazione del lavoro, promozione e produzione artistica?
Cambiano un po’ di cose se passi ad una major. Le differenze sostanziali sono due: la prima è che hai a che fare con una struttura più grossa, molto organizzata, divisa in comparti e devi essere un po’ più manager di te stesso perché devi rapportarti con tante persone, promozione ed un sacco di altre cose che prima ti gestivi da solo. La seconda, invece, è che per fortuna hai qualche soldo in più per registrare dischi o meglio hai i soldi giusti per farlo, perché è un luogo comune che la major ti ricoprano di soldi, non ci sono più i budget super elevati che magari c’erano anni orsono.

In questi casi, di solito, i fans urlano al tradimento, ma ciò nei vostri confronti non è accaduto, al contrario il passaggio – che come prima immediata conseguenza ha portato la band ad una maggiore visibilità – è stato accolto con favore da parte di chi vi segue ormai da anni. Ne convieni?
Si, anche se qualcuno, come al solito, ci ha dato dei “venduti” senza avere neppure ascoltato l’album, ma sono cose tipiche dell’ambiente indie italiano. Personalmente sono contento di avere una struttura che permette di allargare il nostro messaggio, perché comunque chi accusa le major non tiene conto del fatto che anche le indie sono delle aziende che servono per fare soldi. Conosco dei miei colleghi per esempio, che sono alquanto scontenti dello stare in una indie perché sembra tutto rose e fiori ma in realtà sono delle strutture che mirano a fare soldi… il sistema è questo, un sistema capitalistico fatto così… o lo sovverti in una qualche maniera oppure devi starci in mezzo e magari fare la serpe in seno.

Entriamo nel merito de “La Malavita”: quanto hanno inciso sulla composizione dei testi le letture di “Romanzo Criminale” di Geraldo De Cataldo e “La vita fa schifo” di Leo Malet?
Sono due libri che ho letto prima di realizzare il disco; mi hanno influenzato insieme a tante altre cose.

“La Malavita” ha un intreccio antologico che ricorda molto da vicino il capolavoro di Fabrizio De Andrè “Non al denaro non all’amore né al cielo”, e poi c’è quella straordinaria affinità di un brano come “Sergio” con “Un matto”. E’ un paragone ardito?
E’ un paragone che ci onora molto. Ci sono dei punti di contatto, sono due lavori che raccontano di storie e di personaggi. Quello di De Andrè – ci ricorda – era ispirato all’antologia di Spoon River.

“A vita bassa” non proclama una sentenza di condanna nei confronti della superficialità giovanile ma sembra compatirla. Come si è arrivato a tutto ciò? E’ in atto una forma di inibizione automatica a qualsiasi rivoluzione culturale? E’ davvero più interessante parlare di amori che finiscono alla tv o di libri “pornografici”?
Non so perché siamo arrivati a questo punto. Io da persona comune vedo che c’è un degrado, un abbrutimento culturale che va di pari passo con il potenziamento dei mezzi di comunicazione e l’aumento della spettacolarizzazione, il tutto deriva molto probabilmente da un modello di liberismo economico sfrenato. E’ un brutto momento ma non ho soluzioni… forse la “La Malavita” è un disco molto pessimista anche perché c’è molta denuncia di questo abbrutimento.

Eppure i personaggi de “La Malavita” non subiscono il proprio destino, tentano in un qualche modo di opporsi ad esso…
Si certo. “La Malavita” è una lotta che spesso non finisce bene, anzi, direi che la vita in sé a livello cosmico è più forte della disperazione degli umani. Spesso la guerra che si instaura con la vita o con la malavita, è un duello perso in partenza.

Quanti “Corvo Joe” hai conosciuto nella tua vita?
Tanti. Di Corvo Joe ce ne sono tantissimi; la civiltà occidentale moderna genera di continuo emarginati, li genera in mezzo all’apparente luccicare dello sfarzo e della ricchezza economica. Questi “detriti” puoi chiamarli barboni, extracomunitari, tossici… i Corvi Joe sono un prodotto dell’attuale società quanto lo sono i reality show.

Milano è una città che può ancora ospitare il romanticismo?
Si, una forma di romanticismo più cinico e adeguato ai tempi… lo definirei post-industriale.

Parlaci un po’ de “I Provinciali”… un brano che stentava ad amalgamarsi con le trame dei vostri precedenti album, cosa vi ha fatto cambiare idea? E “Kate Moss”… che fine ha fatto?
“I Provinciali” per la sua semplicità e per il suo testo mi sembrava potesse stare bene in un disco come questo. Per quanto riguarda “Kate Moss” è una canzone che mi ha stancato quasi subito e il testo lo trovavo una specie di scherzo.

“Revolver” ha in un qualche modo a che fare con il romanzo omonimo di Isabella Santacroce?
No. Non ho mai letto un libro di Isabella Santacroce… magari lo farò.

Qualcuno ti ha mai detto che potresti tranquillamente essere un personaggio del film di F. Truffaut “Effetto Notte”? Ci parli del tuo rapporto con il cinema?
Ho un rapporto con il cinema molto ossessivo. C’è stato un periodo che uscivo dalla sala e mi sentivo quasi male perché la storia che avevo appena visto continuava anche una volta che il film era finito e mi influenzava nella vita. Un’ossessione che inevitabilmente influenza il mio modo di scrivere.

Qualche anno fa il tuo sogno era di diventare come Gainsbourg … e adesso?
Mi piacerebbe ancora essere Gainsbourg (sorride).

E’ ancora possibile nel 2005 fare musica impegnata oppure si rischia solo di apparire “simbolici”?
Secondo me non esiste la distinzione tra musica impegnata e musica non impegnata. I cantautori francesi, gli esistenzialisti, erano considerati “engage” senza parlare di partiti politici… Brel parlava d’amore. In Italia c’è sempre stata questa contrapposizione tra politico uguale impegnato e canzone d’amore uguale non impegnato. Non è così. Puoi essere impegnato anche parlando d’amore… dipende da come ne parli.

Domanda di rito: se ti dico “Cibicida” tu a che cosa pensi?
Mi viene in mente il magnifico personaggio punk interpretato da John Belushi nel film “Animal House”. C’è una scena in cui si riempie di cibo e fa un indovinello a suoi amici. “Cosa sono?” domanda e nessuno sa rispondere. “Sono un lancia-cibo” dice scoppiandosi la bocca e spruzzando cibo da tutte le parti.

A cura di Vittorio Bertone