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Le Luci Della Centrale Elettrica – “Indipendenti più per sfiga che per scelta”

20-08-09: Le Luci Della Centrale Elettrica, Vasco Brondi. Vasco Brondi, Le Luci Della Centrale Elettrica. Due esistenze comuni, non coincidenti. Due realtà parallele, non sovrapponibili. Una sola conversazione per conoscere entrambi i volti del cantautore ferrarese, e molto più. A seguito dell’intensa performance concessa al pubblico catanese del Qubba per la rassegna “Sporca Estate”, Il Cibicida si ritrova a colloquio con uno degli artisti più discussi dell’ultima annata: tra passato, presente e futuro prossimo di una carriera appena agli inizi.

Domanda: Le Luci Della Centrale Elettrica e le luci della ribalta, due aspetti che convivono da almeno un anno, ormai. Quanto e come è cambiata la tua vita dal 2007? C’è qualcosa che rimpiangi di quella che forse, parafrasando Mimì Clementi, potremmo chiamare “la tua vita precedente”?
Vasco: Beh, parlare di rimpianti probabilmente non è neanche giusto, forse mi infastidisce il fatto che la mia identità venga considerata al cento per cento coincidente con quello che faccio, e invece non è così. Mi piace di più, andando in controtendenza, pensare che sia una parte della mia vita. Io sono anche qualcos’altro; insomma questo progetto ha anche questo nome perché non coincide soltanto con me.

Domanda: I tuoi brani si presentano come sfuriate emotive, danno l’impressione d’essere scritti quasi di getto. In realtà quanto lavoro e quanto tempo c’è dietro ogni singolo pezzo?
Vasco: Sì, moltissimo! (Ride, ndr) Infatti quando leggo “cose scritte di getto” mi viene da ridere, perché ci metto dei mesi!

Domanda: Beh, io ho detto “sembrano”!
Vasco: Infatti, sì! C’è un lavoro enorme dietro, penso che se arrivano sia anche dovuto a questo. Anche prima di uscire su disco o di fare concerti, era da tre-quattro anni che io lavoravo su questa cosa, mentre per vivere facevo altro. Da questo punto di vista, guardandomi attorno e leggendo cose, penso che quello che faccio assomigli quasi più al lavoro di uno scrittore, non tanto per l’importanza della parole, semplicemente per un modo di lavorare che è diverso. Insomma non accetterei mai, non mi piacerebbe, non sarei sicuro di quello che faccio se facessi una canzone in tre quarti d’ora, come moltissimi fanno. E moltissimi fanno delle robe anche bellissime in tre quarti d’ora, nello spunto di disperazione: finiscono il pezzo e non si tocca più. Questo però non è il mio modo di fare. Cioè io leggo moltissimo, scrivo moltissimo e magari diventano dieci righe da venti pagine.

Domanda: Il tuo lavoro ha diviso decisamente la critica. C’è chi ti ha elogiato, c’è chi ti critica aspramente, ma in pochissimi hanno mantenuto toni pacati. Come hai vissuto tu, che eri agli esordi, questo netto bipolarismo?
Vasco: Ma guarda, l’ho vissuto senza dare del peso né all’una, né all’altra cosa. Insomma per me era già incredibile aver fatto il disco. Quando ho composto le canzoni ero in camera mia e facevo tutt’altro. Uno naturalmente ci spera che le cose vadano bene, ma al tempo non era minimamente immaginabile. Per me il massimo sarebbe stato trovare qualche concerto e lavorare nel frattempo, come tutte le altre persone che vedevo, non so: Tre Allegri Ragazzi Morti, Moltheni, Il Teatro Degli Orrori. Il peso che ho dato agli elogi o alle brutture è stato molto relativo, e fortunatamente m’ha salvato. Ovviamente ti girano i coglioni spessissimo per tante cose, però non puoi neanche chiedere di no, perché fa parte del fatto di esporsi. Poi sono anche molto lunatico, magari all’inizio mi stava dando molto fastidio e ho reagito smettendo di leggere tutto, a partire dagli elogi. Son stato sei mesi senza andare neanche in internet, che poi insomma, l’ultima cosa che mi viene in mente in internet è andare a cercare certe cazzate. Alla fine anche se su quel sito lì hanno una determinata opinione del mio lavoro, quel sito lì non vale niente, la gente non va su quei siti lì. Se mi arriva una sputtanata in prima pagina su La Repubblica, magari può essere anche un conto, ma anche lì ci ridi sopra! Normalmente bisogna stare attenti, perché è un microcosmo così piccolo che ci sembra che certe cose abbiano valore, ma in realtà non è così: muoiono dentro questo microcosmo che non ha niente a che fare con la realtà. Io cerco di fare musica non per gli internet dipendenti, o almeno non solo.

Domanda: “I CCCP non ci sono più”, è vero, ma la musica indipendente italiana gode al momento di ottima salute, almeno qualitativamente parlando. Sei d’accordo?
Vasco: In realtà prima di cominciare a farla, non avevo mai seguito la questione della musica cosiddetta indipendente, quindi non so bene che differenza ci sia da adesso a prima, perché prima proprio non sapevo com’era messa. Io onestamente non credo neanche nella categoria di musica indipendente, in un polverone che aspiri a mettere in mezzo tanti personaggi che in realtà tra di loro non hanno spesso niente a che vedere, non mi sembra sensato. Anche perché non ho mai capito: indipendenti veramente da cosa? Indipendenti più per sfiga che per scelta, magari in attesa di una major. E anche la major ormai non vale più niente. La major ti fa il disco, ma non vogliono neanche sentire i provini. Puoi fare veramente quello che vuoi, però poi non sai neanche come ci lavorano, quanto ci lavorano. Penso che le cose importanti non debbano necessariamente essere indipendenti, a me piace più l’ultimo cd di Jovanotti piuttosto che venti dei cd cosiddetti indipendenti. Dipende tutto da quello che dici, se dici qualcosa di buono non dipende dalla questione indipendenti-non indipendenti: dipende che tu arrivi da solo alle persone, facendo i tuoi concerti, buttandoti allo sbaraglio nelle cose che fai. Non è una questione di marketing, se vali qualcosa i risultati arrivano da soli.

Domanda: In questi ultimi tempi hai avuto l’opportunità di girare parecchio l’Italia. Hai cambiato il tuo punto di vista sulla realtà sociale del paese, oppure quest’occasione non ha fatto che rafforzare il tuo sguardo critico? Insomma: le piazze sono veramente vuote? Sono veramente mute?
Vasco: “Le piazze sono vuote, le piazze sono mute” può essere inteso in tanti modi. Di certo se ripensiamo a una piazza intendendoci un luogo di lotta, sono indubbiamente desertiche. Il mio sguardo non credo sia critico a priori, sono molto contrario alle cose critiche a priori: è lo sguardo di chiunque si guardi intorno, ascolta e poi passa attraverso il proprio procedimento mentale di ragionamento, decidendo cosa gli piace e cosa no. Il permettere di girare sicuramente mi ha permesso di capire che ci sono tanti posti, che la maggior parte della gente che ho incontrato era con me. Io nel mio disco ho parlato di una realtà piccola così, che comprendeva sei miei amici. Poi magari vengo a Catania, che è dalla parte opposta dell’Italia, e c’è della gente che in qualche modo si è lontanamente sentita rappresentata dalla stessa cosa. Ho capito che ci sono certi meccanismi e certe dimensioni che si assomigliano, e non solo per questioni geografiche.

Domanda: Hai cominciato a suonare nel momento più difficile del mercato discografico. Come ti relazioni all’aspetto economico, ora che sei un musicista? Come ti relazioni alle opportunità offerte da internet?
Vasco: Il discorso internet è decisamente complesso. Mi pongo la questione semplicemente perché mi pongo il fatto di pagare un affitto, mi pongo il fatto di pagare la macchina. Mentre scrivo è l’ultima cosa a cui penso, ma ad esempio mentre giriamo c’è tanto da organizzare e a me piace tenere tutto sotto controllo. Non ho la visione dell’artista romantico, che storce il naso quando si parla di soldi. Ho sempre lavorato, so di cosa si tratta, anche se non è di certo la mia prima fissazione tirar su più denaro possibile da questa situazione. Su diecimila copie vendute non ho visto un euro, i soldi sono stati tutti reinvestiti. Certo, Giorgio (Canali, ndr), che viene da un altro periodo, mi diceva: i diecimila cd venduti adesso sarebbero stati settantamila, ottantamila, novantamila di vent’anni fa, però al momento non sento il bisogno di determinate cose, anche se potrebbe sembrare retorico.

Domanda: Uno degli ultimi pezzi che hai eseguito stasera citava Susanna Ronconi. Da dove hai preso spunto? Dove nasce la storia?
Vasco: No, non è uno spunto, è una lettera reale che fa parte di una specie di raccolta scritta proprio da Susanna Ronconi, che era una componente di prima linea di un gruppo chiamiamolo sovversivo degli anni ’70, primi anni ’80. Si chiama “Diario minimo di un altro tempo”, e ovviamente non è stato pubblicato da nessuna parte. L’ho trovato sul sito che si chiama “Miccia Corta”, che è gestito da Sergio Segio, il fondatore di prima linea e anche il suo compagno. In questo diario lei scriveva dai carceri in cui è stata trasferita di volta in volta, nel caso specifico si tratta del carcere di massima sicurezza di Voghera.

Domanda: Dal vivo i tuoi arrangiamenti sono decisamente più corposi, più elaborati. Dobbiamo aspettarci questo tipo di sonorità per il prossimo disco?
Vasco: Sì, sicuramente, credo di sì. Parlare di un prossimo disco è prematuro, non ho mai fatto neanche una prova, quindi non ne ho la più pallida idea! Però sicuramente cercherà di essere diverso, ci sarà una componente acustica contrapposta ad una estremamente elettrica che conviveranno di più rispetto a “Canzoni da spiaggia deturpata”, dove magari tutto era più elettrico forse.

Domanda: E naturalmente parteciperà ancora Giorgio Canali, giusto?
Vasco: Ma credo di sì! Qualcosa, una chitarra minimo, ce la dovrà buttare per forza!

* Foto a cura di Riccardo Marra

A cura di Michele Leonardi