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Idles – Crawler

Il 2021 è giunto al suo sprint finale (ed era ora), tirando le somme ed auspicandoci un giro di boa decisivo nel corso dell’anno in arrivo, tra le poche cose che restano, oltre ad una manciata di live, vi sono alcune produzioni fortunate e non previste. Tra queste può essere annoverata anche Crawler, quarta fatica degli Idles giunta a sorpresa, co-prodotta da Kenny Beats, che aveva già contribuito all’ottima “Grounds” del precedente “Ultra Mono” (2020), insieme al chitarrista del gruppo Mark Bowen. Al centro delle liriche vi sono traumi da superare e il baratro delle dipendenze dal quale strisciare fuori cercando di rialzarsi: temi personali e differenti dai toni maggiormente politici a cui il quintetto ci aveva abituati.

I ritmi dinamici e ossessivi e le chitarre ronzanti di brani come The Wheel e The New Sensation, la prima legata all’alcolismo, l’altra al lockdown e come esso abbia inciso sulla vita di chi lavora nel mondo dell’arte, si ricollegano idealmente al terzo album della band, così come i pregiudizi schiaccianti della marcia granitica di Stockholm Syndrome, che sfocia in cavalcata nel ritornello. Segnano un grande cambio di passo dal punto di vista delle sonorità i synth scarni di MTT 420 RR, dove il registro di Joe Talbot rimanda ai primi lavori dei Nick Cave & The Bad Seeds, e le atmosfere bauhausiane a cavallo tra seventies ed eighties di When The Lights Come On, chestrizzano l’occhio anche ai più recenti Fontaines D.C. di “The Lotts” e “Living In America”.

Tra le vette più alte sfiorate dal gruppo vi sono lo spoken word distorto e bistrattato dal mood industrial di Car Crash, che accenna ad ammorbidirsi e scivolare via nell’oscurità del finale distruttivo, e la migliore e struggente pseudo-ballad The Beachland Ballroom. Si fanno ricordare anche le chitarre dell’ottimo anthem Crawl! e l’incedere schizofrenico di Meds, caratterizzato, oltre che dalla bassline in primo piano, dalla presenza del sassofono di Colin Webster dei Sex Swing. Purtroppo non tutti gli esperimenti riescono perfettamente al primo colpo: sebbene i sintetizzatori prepotenti del mantra Progress,introdotto dall’appena percettibile Kelechi, lo sfogo Wizz e la risoluta King Snake risultino perfettamente coerenti con l’opera, non spiccano particolarmente per grandiosità rispetto al resto, lasciando al finale di The End e al suo trionfale “In spite of it all / Life is beautiful” l’onere di rimediare a questi nove lunghi minuti di riempitivo.

Incazzati furiosamente come li avevamo conosciuti con le formule di “Brutalism” (2017) e “Joy As An Act Of Resistance” (2018) probabilmente non li riavremo (e questo spiacerà a molti), il cronico umorismo nero volutamente caricaturale di “Ultra Mono” ha lasciato il posto al buio pesto del crepaccio profondo dipinto dagli Idles in “Crawler”, scegliendo di seguire nuovi temi e sentieri musicali, insieme al rifiuto netto di essere etichettati: idea coraggiosa e non sempre di immediata riuscita. L’unico neo, non indifferente, rimane la pesante critica rivolta alla band dai colleghi Sleaford Mods, riguardante l’utilizzo di argomenti sociali e politici nei testi, di cui in realtà non gli importerebbe nulla. Solo (bruciante) invidia o pura verità, visto il cambio di rotta di Talbot e soci dal punto di vista delle tematiche? Lo scopriremo nel quinto capitolo.

(2021, Partisan)

01 MTT 420 RR
02 The Wheel
03 When The Lights Come On
04 Car Crash
05 The New Sensation
06 Stockholm Syndrome
07 The Beachland Ballroom
08 Crawl!
09 Meds
10 Kelechi
11 Progress
12 Wizz
13 King Snake
14 The End

IN BREVE: 3,5/5

Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.