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Jake Bugg – Shangri La

shangrilaQuando un artista desta l’interesse di determinati produttori non è quasi mai un caso. Certo, l’aspetto gallina dalle uova d’oro è spesso un’ottima spiegazione, ma la cosa non esclude che ci sia anche dell’altro. Del materiale acerbo da cui tirare fuori meglio di quanto fatto fino a quel momento. Oppure il desiderio di cimentarsi in nuove sfide. O entrambe le cose, magari, come crediamo sia accaduto nell’avvicinamento fra Jake Bugg e Rick Rubin, un produttore avvezzo a ben altre sonorità che ha convocato il giovanissimo inglese direttamente agli storici Shangri La studios di Malibu, alcova in cui Rubin s’è rinchiuso da qualche anno a questa parte dopo averli acquistati. Bugg, per ringraziarlo, ne ha preso anche il nome per darlo al proprio secondo lavoro sulla lunga distanza, un po’ come si fa quando si chiama un figlio col nome del proprio genitore.

Il risultato è un album che, a poco più di un anno di distanza dal fortunato omonimo esordio, pone Jake Bugg difronte a un bivio: fare il Bob Dylan o fare l’Arctic Monkeys senza Arctic Monkeys? Le idee non sembrano chiarissime e la cosa appare evidente. Perché se c’è un difetto, in questo “Shangri La”, è l’urgenza espressiva che investe Bugg, la voglia di sputare fuori tutto e subito. Comprensibile per un diciannovenne che da un anno a questa parte sente chi gli sta intorno ripetergli quant’è bello e quant’è bravo.

Non voleva deludere nessuno Jake, quindi ha pensato bene di piazzare dentro questo sophomore tutta la roba che ha ascoltato e che ha contribuito alla sua formazione, come a dire: “Ehi! La lezione l’ho studiata bene e ora ve lo dimostro”. Ed è per questo che la carne sul fuoco appare a tratti troppa e anche le bistecche più succose rischiano di bruciarsi o non cuocersi bene.

E così, mentre Alex Turner e i suoi Arctic Monkeys hanno fatto un passo avanti col loro ultimo “AM”, ci pensa il pischello Bugg a colmare l’improvvisa vacanza di pezzi brit rock al fulmicotone: vedi i due singoli che hanno anticipato l’album, Slumville Sunrise e What Doesn’t Kill You, oppure Messed Up Kid. Poi ci sono brani come Simple Pleasures, omaggio neanche troppo velato ai capelli a caschetto d’Albione (siano essi quelli dei Beatles o degli Oasis, poco importa), e ballatone col titolo che sono tutto un programma (A Song About Love e All Your Reasons, con quest’ultima che evidenzia delle interessanti vene psichedeliche).

Ma è quando Bugg torna più indietro nel tempo che la sua vera natura viene fuori: prendi la conclusiva Storm Passes Away, con quel folk-country che tira un pugno in faccia alla tradizione, la stende al primo colpo e gli ruba il borsello. Ancora, Me And You e Pine Trees, che proseguono sulla stessa falsariga, oppure il tentativo blueseggiato di Kingpin.

A cavallo fra i generi, con un’identità artistica non del tutto definita e delle lyrics sinceramente un po’ banali e migliorabili, il cantautore di Nottingham chiarisce però al mondo che le basi per costruire qualcosa d’importante ci sono e che gli spunti e le idee non mancano. Ma andrà imboccata una strada, perché a saltellare di continuo da una cosa all’altra il rischio è quello di cadere e farsi male.

(2013, Mercury)

01 There’s A Beast And We All Feed It
02 Slumville Sunrise
03 What Doesn’t Kill You
04 Me And You
05 Messed Up Kids
06 A Song About Love
07 All Your Reasons
08 Kingpin
09 Kitchen Tables
10 Pine Trees
11 Simple Pleasures
12 Storm Passes Away