Home RECENSIONI Jenny Hval – The Practice Of Love

Jenny Hval – The Practice Of Love

The Practice Of Love è un album che va affrontato da una prospettiva diversa dal solito per quello che riguarda la produzione artistica di Jenny Hval: è il suo disco meno sperimentale e quello più pop – segnatamente synthpop, diremmo – e segna probabilmente una rottura forse definitiva rispetto al passato. Certo, non manca il buon gusto e comunque un lavoro di ricerca concettuale caratteristico dell’artista.

Tanto per dire il disco s’ispira a tutti gli effetti, e ne riprende il titolo, a un film del 1984 (“Die Praxis der Liebe”) dell’artista e performer austriaca Waltraud Lehner aka Valie Export (classe 1940), anche se per stessa ammissione della musicista e compositrice norvegese questo qui costituisce sul piano delle liriche il suo lavoro più personale.In bilico tra quello che potremmo definire come indie e il carattere sofisticato che riconosciamo storicamente a quest’artista, il disco si può considerare un album pop di musica elettronica. Verrebbe da pensare a alcuni dei lavori di Charlotte Gainsbourg, anche se paragonato all’ultimo album della cantautrice e attrice francese questo qui sta almeno un gradino sotto (se non due, forse tre…).

Nella sostanza vi sono due pezzi tipicamente pop, di cui uno (High Alice) è sicuramente buono e persino radiofonico, mentre l’altro ha un titolo che fa pensare a David Bowie (Ashes To Ashes) ma anche un carattere indie pop à la Beach House assolutamente inconsistente. Il resto del materiale è molto più particolare negli arrangiamenti e nello stile, anche grazie alle collaborazioni con la polistrumentista Vivian Wang, la cantautrice Laurea Jean e la artist performer Felicia Atkinson, che prestano variamente la propria assistenza a seconda delle esigenze del contesto. Si va da pezzi di musica elettronica pop come Lions oppure Six Red Cannas, alle vibrazioni glaciali di Accident, gli Amorphous Androgynous della title track, il sofisticato ma poco riuscito sperimentale Thumbsucker, l’emozionale e conclusiva Ordinary, forse il pezzo migliore del lotto unitamente alla già menzionata High Alice.

Apparentemente in contrapposizione al disco precedente “Blood Bitch” (2016) sul piano dei contenuti, qui Jenny Hval si sofferma su quella che si potrebbe definire come “dolcezza”, quasi s’ispira a principi dell’umanesimo, andando a ricercare il senso della vita non solo nel senso dei rapporti con gli altri e con il mondo che ci circonda, ma anche dando una propria interpretazione a quello che possiamo considerare il patrimonio culturale e artistico (da qui, non casuale, il riferimento di cui sopra all’opera di Valie Export) e quindi di conseguenza riscrive il proprio percorso artistico. Facendolo, diciamocela tutta, non convince appieno: il disco non è brutto, ma per fare veramente colpo e stupire ci sarebbe bisogno di qualche argomento più forte che la sola svolta artistica e tutto questo, a parte quei due/tre pezzi oggettivamente brutti, qui manca.

(2019, Sacred Bones)

01 Lions
02 High Alice
03 Accident
04 The Practice Of Love
05 Ashes To Ashes
06 Thumbsucker
07 Six Red Cannas
08 Ordinary

IN BREVE: 2/5

Sono nato nel 1984. Internazionalista, socialista, democratico, sostenitore dei diritti civili. Ho una particolare devozione per Anton Newcombe e i Brian Jonestown Massacre. Scrivo, ho un mio progetto musicale e prima o poi finirò qualche cosa da lasciare ai posteri. Amo la fantascienza e la storia dell'evoluzione del genere umano. Tifo Inter.