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Julie – My Anti-Aircraft Friend

Uno degli aspetti positivi della musica perennemente a portata di ogni orecchio è che chiunque, a qualsiasi età e con qualsiasi background, può ritrovarsi volutamente o per purissimo caso ad ascoltare un album, un brano, una playlist, anche un podcast tematico, e scoprire così band che in caso contrario gli sarebbero rimaste probabilmente ignote per sempre. Ascolti che, con un po’ di fortuna e necessaria predisposizione, possono anche finire per cambiarti la vita. E fa quindi sempre un certo effetto trovarsi davanti a ragazzi poco più che ventenni che, in quest’epoca dominata dal suono fast food, riescono ad appassionarsi a riferimenti così datati e lontani, non solo anagraficamente. Il caso dei californiani Julie è emblematico, perché Keyan Pourzand, Alexandria Elizabeth e Dillon Lee sono usciti con un esordio (in precedenza c’era stato solo l’EP “Pushing Daisies” nel 2021) che li catapulta e ci catapulta in un’America a cavallo tra Ottanta e Novanta, un’America di produzioni DIY, di rumore come estasi suprema e sole perennemente coperto da un’inquietante luna nera.

Con My Anti-Aircraft Friend il trio di base a Los Angeles dà una bella spallata all’hype dilagante che fa parlare di loro già da un pezzo, una spallata a colpi di noise e venature gaze, di spirito slacker e sensibilità comunicativa, palesando in modo netto quanti e quali band si sono ritrovate a suonare nel corso delle loro immaginiamo lunghissime session di ascolto selvaggio. Non si fa molta fatica a individuarle, visto che l’iniziale Catalogue trasuda Sonic Youth da ogni nota (ma in generale l’intero disco guarda a loro), il singolo Claibourne Practice girovaga dalle parti dei primi My Bloody Valentine, Knob s’immerge nello slowcore di campioni come i Red House Painters prima di esplodere al solito thurstonmooreiano modo, Piano Instrumental ha (soprattutto nella parte iniziale) un non so cosa della “Something In The Way” dei Nirvana. E Kurt Cobain è un po’ l’altro grande nume tutelare dietro al disco, non tanto (o meglio, non soltanto) per l’aspetto puramente sonoro quanto per quello atmosferico e lirico, fondamentale nella stessa misura all’evoluzione dell’intero lavoro.

L’incastro di voci maschile/femminile di Purzand/Elizabeth (che ovviamente sa anch’esso tantissimo di Sonic Youth) fa il resto nella dinamica di un disco che, sebbene già sentito ed evidentemente derivativo (sì, ma che meraviglia di derivazioni, eh?), si fonda su delle basi solide, pescando a piene mani nell’alternative rock, nell’indie rock, nello shoegaze e nel noise, prendendo un po’ da ogni parte ma miscelando il tutto in modo da rendere ogni etichetta solo un’etichetta buttata lì senza troppo senso, per l’appunto. Feedback e dissonanze (come nel finale di Very Little Effort), corse frenetiche da una sponda all’altra dell’Oceano Atlantico, un mucchio di musicassette e CD nel loro bagagliaio (che nel ’90 o giù di lì i vinili non erano ancora tornati di moda) e tanta, tantissima convincente attitudine. Bene, bravi, bis!

2024 | Atlantic

IN BREVE: 3,5/5