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Stone Temple Pilots – Perdida

L’ottavo album degli Stone Temple Pilots si presentava fin dalle sue premesse come un azzardo: il bassista Robert DeLeo aveva affermato che era stato scelto di realizzare solo brani acustici per far sì che giungessero al pubblico in maniera più genuina. Non si tratta di un concept, ma si può ugualmente trovare un filo conduttore, oltre che nella coerenza dei suoni, nei temi affrontati nei testi che, come si evince dal titolo, riguardano la perdita in tutte le sue tipologie. Dal dolore per la rottura di un rapporto sentimentale o di amicizia a quello causato dalla lontananza, fino a quello per la morte di una persona cara.

Nel trittico iniziale Fare Thee Well, Three Wishes e Perdida il lavoro certosino del chitarrista Dean DeLeo la fa da padrone, tra parti acustiche e pochi riff appena accennati nelle prime due. Ci si accorge fin dal principio che di spagnoleggiante non vi è solamente il titolo, ma anche alcuni giri di chitarra, indice di ricerca e studio da parte della band (jazz, folk, flamenco in primis e perfino prog), e che il modo di cantare di Jeff Gutt strizza molto l’occhio a quello del compianto Scott Weiland, ma lo fa senza forzature e cadere nella parodia. I Didn’t Know The Time, omaggio a Weiland e a Chester Bennington, è una delle tracce di maggior interesse, in cui si possono cogliere delle reminiscenze di “Hello, It’s Late”, ballad da “Shangri-LA DEE DA” (2001), ed è caratterizzata dal suono lieve di un flauto. Years riconduce a sonorità anni Settanta e il protagonista in primo piano è un sassofono, mentre le voci di Robert e Jeff sono echi lontani.

Altri punti focali del disco li ritroviamo in She’s My Queen e Miles Away, chevedono entrambe l’uso di un marxophone, uno strumento a corde simile ad una cetra da tavolo. La prima è caratterizzata da suoni etnici, mentre nella seconda ritorna nuovamente l’utilizzo del flauto, questa volta in un modo che può rimandare ad alcuni brani dei Jethro Tull. A dispetto dei suoi sei minuti e mezzo, Sunburst scorre via agevolmente, dominata dalla melodia di un pianoforte e una chitarra flamenca, concludendo perfettamente il viaggio della band dei fratelli DeLeo. Nel complesso il disco è scorrevole e l’artwork della copertina esprime al meglio il suo contenuto: testi solidi, suoni ricercati e calibrati, una voce pulita che a tratti appare lontana, il tutto senza scadere mai nel melenso o nello stucchevole. Ogni brano crea un contrasto, lasciando sia un senso di tristezza che di speranza, perché dopo un lungo inverno si può sperare nella primavera.

Sebbene non arrivi ad aggiudicarsi un punteggio perfetto, perché divisorio ed “alieno” in confronto allo stile originale dei STP o più appropriatamente per ciò che sarebbero realmente in grado di fare (aspettarsi un album grunge nel 2020 è pura follia, ma ciò non impedisce di comporre brani maggiormente energici), Perdida ha rispettato l’intento esposto da Robert in precedenza: arriva all’ascoltatore in maniera sincera e colpisce dritto al cuore, un’estrema prova molto ben affrontata dalla band di San Diego che può segnare l’inizio di un nuovo percorso.

(2020, Rhino)

01 Fare Thee Well
02 Three Wishes
03 Perdida
04 I Didn’t Know The Time
05 Years
06 She’s My Queen
07 Miles Away
08 You Found Yourself While Losing Your Heart
09 I Once Sat At Your Table
10 Sunburst

IN BREVE: 4/5

Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.