
Dando per assodato che in casi come questo la memoria funge solo da accessorio, avremmo potuto rivolgerci alla classica paginetta di Wikipedia per ricostruire con precisione una discografia immensa come quella degli Swans, appioppando così una numerazione progressiva a questo Birthing, ultimo arrivato di casa Gira. Poi ci siamo chiesti: ha un senso che questi dischi vengano messi uno dietro l’altro in sequenza? Come se fossero fotogrammi di un unico film dalla narrazione regolare. Come se si riuscisse a intravedere, all’interno di ciascuno di essi, un qualche elemento che riesca a farli connotare temporalmente. Come se gli Swans non fossero semplicemente gli Swans, un’entità a-temporale e a-geografica. Come se gli Swans non fossero, in fondo, il puro e semplice rituale magico di un artista che ormai da quasi cinquant’anni varca confini senza mai guardarsi indietro o, se lo ha fatto, solo per andare a de-costruire ciò che era stato costruito in precedenza.
La risposta alla domanda che ci siamo posti è stata ovviamente negativa. No, non ha alcun senso inquadrare “Birthing” qui o altrove, oggi o ieri che sia, perché sarebbe semplice parlarne come di quello che dovrebbe essere l’ultimo album degli Swans per come li abbiamo conosciuti, quantomeno stando alle parole dello stesso Michael Gira; perché sarebbe stupido intravederci dentro una qualche forma di “conclusione”, un qualche segnale di “chiusura”. Non è così. “Birthing” è Swans e Swans è “Birthing”, così come lo è stato ogni benedetto/maledetto capitolo di questa saga sonora che non ha avuto eguali nella storia della musica per visione, per anticipazione dei tempi, per strafottenza con la quale il suo deus ex machina ha perseguito solo e soltanto il proprio progetto sonoro, infischiandosene di tutto il resto.
“Birthing” è estremo e logorante, a partire dalla sua durata, quasi due ore per sette tracce che scavano in profondità nel ventre di uomini martoriati da un’angoscia ancestrale, in cui il rumorismo che ha caratterizzato gran parte della carriera di Gira si affievolisce ma solo per prendere meglio la rincorsa e ferire con più cattiveria. La forma è quella di un enorme buco nero (magari quello dell’indecifrabile artwork?) da cui filtra una luce sotto le sembianze di rarefazioni come nella conclusiva (Rope) Away, di un’impostazione dalle tendenze orchestrali come nella title track, di quel tremendo divertissement che è The Merge.
Ma è una luce che tradisce, messa lì per ammaliarti e poi repentinamente accecarti. Lo fa attraverso le lugubri ombre post punk di Red Yellow e Guardian Spirit, corpo centrale di un lavoro che ti manganella sui malleoli, sulle ginocchia, sui gomiti, lì dove può fare più male senza lasciare troppi segni. Lo fa con quelle monolitiche cavalcate verso l’oltretomba che sono The Healers e I Am A Tower, viatico iniziale di un viaggio che sai da subito tenderà all’autodistruzione. Gira è un demone che conosce la verità , non gli serve un forcone per punzonarti, non gli servono fiamme, gli basta sputarti in faccia ciò che sa, della vita e della morte.
Che ne sarà degli Swans? Questo “Birthing” sarà una rinascita sotto altre spoglie, come suggerisce il titolo, o sarà la pietra tombale degli Swans? Dovremo davvero abituarci alla mancanza di tutto questo? Ma tutto questo cosa, dopotutto? Swans è Michael Gira, Michael Gira è Swans, un tutt’uno di musica e rumore, lame e disperazione, grugniti e parole che sanno di un rituale di cui è complicatissimo comprenderne il significato. Perché quello, in ultima istanza, lo conosce solo Michael Gira. Lo conosce solo Swans. Noi gli giriamo semplicemente intorno, da sempre, cercando di farci trasportare da un flusso costantemente in evoluzione. Oggi come dieci, venti o trent’anni fa. Addio Swans. Benvenuti Swans.
2025 | Mute/Young God
IN BREVE: 4/5