Home RECENSIONI U.S. Girls – Heavy Light

U.S. Girls – Heavy Light

La personalità artistica di Meg Remy, nel decennio appena concluso, si è distinta per aver saputo condurre la propria proposta musicale attraverso un processo evolutivo evidente e convincente. Le sperimentazioni di “Go Grey” (2010) e di “U.S. Girls On KRAAK” (2011), ammantate dalle umbratili soluzioni lo-fi, si sono piano piano ammansite trasformandosi in efficaci melodie pop, in cui l’architrave arty ha lasciato il passo al groove. Tutto ciò è coinciso con il passaggio di Remy e del suo moniker U.S. Girls alla 4AD nel 2015: “Half Free” prima e, soprattutto, “In A Poem Unlimited” (2018) poi, hanno evidenziato come la Remy sia in grado di scrivere dei testi di spessore in abiti marcatamente pop, senza dimenticarsi delle proprie radici rumoriste.

Un altro aspetto da considerare in questo cambiamento è il passaggio dal pensare e comporre come una one girl band, a farlo in funzione di un collettivo. La scrittura è stata pensata per armonie più ariose e complesse, con un aumento considerevole del novero degli artisti impegnati negli ultimi due dischi. In quest’ultimo, Heavy Light, il parterre è di tutto rilievo: oltre a Max Turnbull – marito della Remy – alle tastiere, troviamo il sax di Jake Clemons della E Street Band di Springsteen, la cantautrice canadese Basia Bulat ai cori e il chitarrista degli Arcade Fire, Tim Kingsbury. Per questo ottavo lavoro in studio Meg Remy si è autoprodotta: non è così inusuale trovarla in cabina di regia, anche i precedenti lavori avevano visto la sua supervisione/collaborazione alla produzione.

“Heavy Light” si presenta con tutte le migliori intenzioni, cercando di ripartire da quella meravigliosa sintesi di sonorità groovose e febbrilità testuali che aveva caratterizzato “In A Poem Unlimited”. Il risultato, però, non sempre è all’altezza delle aspettative. Le note iniziali sembrano seguire la scia luminosa lasciata dal predecessore: 4 American Dollars si muove tra Abba e r’n’b di matrice Motown, mentre Overtime, primo singolo sfornato, è un funk frenetico che naviga tra crucci personali e istanze sociali.

Momenti di stanca e di non eccessiva messa a fuoco questo disco li presenta nelle ballate: IOU stempera gli animi, mette da parte il groove e sceglie un registro più dimesso con piano e voce e qualche arco a rimpolpare l’arrangiamento, monocorde rispetto a quanto ci ha abituati la Remy. Per Denise, Don’t Wait e Woodstock ’99 si pone lo stesso discorso ma è innegabile che siamo di fronte a testi ispirati, più protesi verso i sentimenti piuttosto che verso le rivendicazioni sociali. Highlight del disco è And Yet It Moves / Y Se Mueve, un brano pop che richiama echi di bossanova elettrificata dal groove del pianoforte elettrico.

Il power pop di The Quiver To The Bomb e il lo-fi di Red Ford Radio – pezzo già presente in “Go Grey” del 2010, ma qui detonato da ogni sovrastruttura vocale – accompagnano la fine di un disco collocabile in un limbo interlocutorio. La fiammella compositiva di Meg Remy non si è assopita, ancora riesce a regalare isolate perle, ma forse necessita, per il futuro, di ritrovare quella visione d’insieme, sonora e testuale, che tanto aveva caratterizzato “In A Poem Unlimited”.

(2020, 4AD)

01 4 American Dollars
02 Overtime
03 IOU
04 Advice To Teenage Self
05 State House (It’s A Man’s World)
06 Born To Loose
07 And Yet It Moves / Y Se Mueve
08 The Most Hurtful Thing
09 Denise, Don’t Wait
10 Woodstock’99
11 The Color Of Your Children Bedroom
12 The Quiver Of The Bomb
13 Red Ford Radio

IN BREVE: 3/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.