
Gli anni ’90 erano stati un decennio particolarmente impegnativo, oltre che dannatamente significativo e ricco di soddisfazioni, per tutte quelle band che, partendo da Seattle e dintorni, erano riuscite a portare l’alternative rock in cima alle classifiche di mezzo mondo. Per i Pearl Jam gli anni ’90 erano stati addirittura delle montagne russe, tra amici venuti prematuramente a mancare, debolezze personali da affrontare, bagarre con colossi del ticketing, poca o nessuna voglia di finire sulle copertine e un’ascesa fattasi comunque inarrestabile, da quel “Ten” che nel ’91 li aveva lanciati in orbita a “Yield” che nel ’98 aveva chiuso nel migliore dei modi il loro decennio discografico.
Ma segni e cicatrici del genere sarebbero state impossibili da cancellare con un colpo di spugna e così, proprio sul finire del millennio, i nodi vengono pesantemente al pettine: la posizione di batterista è nuovamente in bilico, Jack Irons lascia durante il tour di “Yield” e al suo posto arriva (per non andar più via) l’amico Matt Cameron, in pausa dai Soundgarden; Eddie Vedder è stremato, espressivamente prosciugato, tanto da non riuscire più a mettere in fila tre parole per un qualsiasi possibile nuovo brano; Mike McCready, poi, è ancora alle prese con le sue dipendenze, entra ed esce dalle cliniche di riabilitazione senza riuscire a trovare continuità di sane abitudini e quindi anche lavorativa.
È in queste traballanti condizioni che i Pearl Jam si mettono al lavoro su quello che sarebbe stato il loro personale benvenuto agli anni Duemila. Per Binaural, così, Vedder, Ament, Gossard, McCready e Cameron decidono che l’unico modo per andare avanti sarebbe stato quello di fare un passo indietro, ovvero tornare a far musica insieme per il piacere di farla, senza troppa matematica e senza voler necessariamente mettere troppa carne sul fuoco, come fatto con i precedenti “Yield” e “No Code” (1996), che erano stati i primi − riusciti, a onor del vero − tentativi di dare una svolta al proprio sound e a se stessi come band, prendendosi persino qualche rischio non calcolato.
Brendan O’Brien, che li aveva prodotti da “Vs.” (1993) in poi, viene invitato a lasciare il suo posto a Tchad Blake, noto nell’ambiente per il suo utilizzo della tecnica binaurale (da cui il titolo stesso del disco), tecnica di registrazione che prevede l’utilizzo di due microfoni in modo da creare un effetto tridimensionale che dà all’ascoltare la sensazione di trovarsi lì con chi sta suonando. Insomma, i Pearl Jam avevano voglia di sentirsi vivi, analogici, carnali, di ritrovare il contatto con se stessi come membri di una band e di conseguenza con il proprio pubblico, che era cresciuto esponenzialmente così come le location che ormai ospitavano i loro tour, acuendo però al contempo il senso di distacco tra sopra e sotto il palco. In poche parole iniziano a porre, consapevolmente o meno, le basi di ciò che sarebbero stati da questo momento in poi.
In “Binaural” convivono infatti un po’ tutte le essenze dei Pearl Jam che erano stati, di quelli che erano in quel momento e di quelli che col senno di poi sarebbero stati in futuro. Se l’attacco con Breakerfall, God’s Dice ed Evacuation paga pegno alle inclinazioni più sporche e ruvide della band, già con la ballad Light Years iniziano a farsi sotto quelle sonorità rarefatte e tendenzialmente psichedeliche che regalano a “Binaural” le sue peculiarità , sonorità portate all’estremo proprio sul finale con Sleight Of Hand e Parting Ways. In Nothing As It Seems c’è una delle migliori performance della sei corde di McCready, slabbrata e dilatata a creare un coinvolgente effetto malinconico, al pari di Of The Girl. I suoni acustici di Thin Air e Soon Forget, poi, mettono in evidenza l’ascendente di Vedder, che nella prima mette a punto la calda tecnica vocale che inizierà a caratterizzarlo, mentre nella seconda si approccia a uno strumento come l’ukulele che di lì in poi non smetterà più di accompagnarlo.
Così come l’aspetto sonoro, anche i testi di Vedder sono piuttosto vari sebbene principalmente venati di nero, vedi la rabbia che impregna Rival, i ricordi che l’assalgono in Light Years o l’invettiva anti-tecnologica di Grievance, testi con i quali esce in maniera genuina − se non addirittura brillante − da quel blocco dello scrittore che l’aveva attanagliato in fase di composizione del disco, esorcizzato definitivamente proprio sul finale, in coda a Parting Ways, con l’inserimento del rumore frenetico di una macchina da scrivere. Una vena anche politica, quella di questo Eddie Vedder, che sarebbe poi esplosa del tutto in “Riot Act” (2002) ma che ha alcune delle sue radici più profonde proprio in “Binaural”, un disco fondamentale nello sviluppo e nell’evoluzione del linguaggio dei Pearl Jam del nuovo millennio.