
C’è sempre un grande equivoco di fondo quando si tratta di parlare dei Mother Love Bone, ovvero considerarli una band grunge. Un’etichetta, questa, che ha sempre lasciato e lascia ancora il tempo che trova, buona − persino ottima oseremmo dire, vista l’innegabile iconicità che ha raggiunto − a indicare, più che un genere musicale, un’intera scena cittadina fatta da formazioni anche parecchio distanti l’una dall’altra. Il fatto che Stone Gossard, Jeff Ament e Bruce Fairweather provenissero dai fondamentali Green River, così come la futura carriera dei primi due che ha segnato indelebilmente la storia di Seattle e del rock tutto con il lampo dei Temple Of The Dog e la costanza dei Pearl Jam, ha fatto sì che i Mother Love Bone si ritrovassero inseriti in quel calderone senza però avere troppi punti di contatto coi colleghi. Certo l’approccio punk dei Nirvana non aveva nulla a che vedere con le influenze hard rock dei Soundgarden, quelle heavy metal degli Alice In Chains o quelle classic rock dei Pearl Jam, ma queste band, così come Mudhoney, Melvins e via discorrendo, erano ai tempi accomunate dal buio in cui i loro pezzi brancolavano, lontani anni luce dall’assolato rock californiano che per tutti gli anni ’80 aveva dettato legge in classifica e in cui proprio i Mother Love Bone si rivedevano, più per indole del loro frontman che per una precisa scelta artistica.
Andy Wood era una rockstar fatta e finita nonostante la giovane età, uno di quelli che quel mestiere lì lo hanno nel sangue prima che nella testa, aveva già calcato con successo i palchi underground di Seattle con i Malfunkshun e trovò nei Mother Love Bone la definitiva quadratura del suo istrionico talento. Un cantante dotatissimo, gli appartenevano sfumature e registri diversi messi di volta in volta al servizio delle luminose melodie partorite dalla sua band. Come tanti ragazzi di quella generazione, anche Wood c’era dentro fino al collo con l’eroina e, tra i primi ma purtroppo non ultimo dei musicisti di quel periodo, la sua dipendenza gli presentò un conto salatissimo il 19 Marzo del 1990, quando dopo qualche giorno di coma venne dichiarato cerebralmente morto e staccato dai macchinari che lo tenevano artificialmente in vita. Overdose.
Esattamente un anno prima, i Mother Love Bone avevano debuttato con l’EP “Shine”, cinque tracce che avevano fatto crescere sensibilmente l’attesa per il loro primo lavoro sulla lunga distanza, si sentiva nell’aria e lo sapevano tutti che quella band avrebbe fatto il botto. Il disco, Apple, è già pronto quando Wood muore e arriva nei negozi giusto qualche mese dopo, uno strano e tristissimo esordio postumo visto che i Mother Love Bone non esistevano già più. Ma nonostante ciò rappresenta fin da subito uno spartiacque, un disco che traghetta gli ’80 del glam e dell’hair metal nel contesto dell’alternative rock dei ’90, un disco dove convivono riff heavy metal (Stardog Champion, Capricorn Sister) e ballad da pelle d’oca (Bone China, Stargazer o la meravigliosa Crown Of Thorns). Ci sono maestri come i Led Zeppelin a vigilare sul tutto, ma c’è anche uno sguardo attento a quei Guns N’ Roses che avevano spaccato in due gli ’80, così come agli Aerosmith più patinati, con Wood e i suoi che pescano qua e là spunti che risulteranno decisivi nel forgiare il loro stile.
Impossibile ipotizzare che percorso avrebbero potuto intraprendere i Mother Love Bone se Andy Wood non fosse tristemente venuto a mancare, ma sappiamo con certezza che senza di loro non avremmo avuto uno struggente progetto estemporaneo come i Temple Of The Dog, nati proprio come un tributo a Wood capitanato da Chris Cornell, che di Andy era stato amico nonché coinquilino, e non avremmo avuto i Pearl Jam, dei quali il duo Gossard/Ament è sempre stato l’ossatura compositiva e matematica. Una parabola brevissima e accecante, quella di Wood, che ci ha concesso però la possibilità di ascoltare e godere di un grande cantante strappatoci via troppo prematuramente.

